Domandiamoci allora cosa accade e cosa cambia quando il calore della sua presenza - la presenza dell’Amore di Dio fatto carne, fatto Gesù - incontra la vita di un uomo. La risposta a questa domanda è un’esperienza, non sono delle chiacchiere! È un’esperienza reale e tangibile. Innanzitutto dovrebbe essere tutta la nostra esperienza personale e l’esperienza che segna la ragione originale e radicale della nostra amicizia. Credo che ognuno di noi possa ritrovarla descritta dalle stupende parole di Papa Francesco quando, commentando la vocazione di san Matteo, durante il suo viaggio a Cuba, ha detto:“(…) Egli stesso [san Matteo] nel suo Vangelo, ci racconta com’è stato l’incontro che ha segnato la sua vita, ci introduce in un ‘gioco di sguardi’ che è in grado di trasformare la storia (il Papa dice la storia: non solo ogni uomo, ma tutta la storia!). Un giorno come qualunque altro, mentre era seduto al banco della riscossionedelle imposte, Gesù passò e lo vide, si avvicinò e gli disse:
«Seguimi». Ed egli si alzò, lo seguì. Gesù lo guardò. Che forza di amore ha avuto lo sguardo di Gesù per smuovere Matteo come ha fatto! Che forza devono avere avuto quegli occhi per farlo alzare! Sappiamo che Matteo era un pubblicano, cioè riscuoteva le tasse dagli ebrei per darle ai romani. I pubblicani erano malvisti, considerati anche peccatori, e per questo vivevano isolati e disprezzati dagli altri. Con loro non si poteva mangiare, né parlare e né pregare. Per il popolo erano dei traditori, che prendevano dalla loro gente per dare ad altri. I pubblicani appartenevano a questa categoria sociale. E Gesù si fermò, non passò oltre frettolosamente, lo guardò senza fretta, lo guardò in pace. Lo guardò con occhi di misericordia; lo guardò come nessuno l’aveva guardato prima. (E quella presenza gli scoppiò dentro il cuore!). E quello sguardo aprì il suo cuore, lo rese libero, lo guarì, gli diede una speranza, una nuova vita, come a Zaccheo, come a Bartimeo, a Maria Maddalena, a Pietro e anche a ciascuno di noi”.
Ecco cosa accade! Ecco l’esperienza di un uomo, di un cuore raggiunto dal calore di quella presenza, di quello sguardo, di quell’amore. Il cuore da pre-occupato, appesantito, imprigionato, intristito, ammalato da noi stessi, dalle nostre immagini, dai nostri pensieri, dai nostri tentativi, dalle nostre misurazioni e dalle nostre paure, angosce, peccati e miserie si ritrova investito e pieno di uno stupore, di una meraviglia, di una commozione, di una libertà, di una pace, di un’attrattiva irresistibile per uno sguardo unico, impareggiabile che lo ridesta e lo rigenera alla vita, alla speranza, all’amore. La vita, incontrata e investita incessantemente dallo sguardo di Gesù, la si vede fiorire e rifiorire continuamente nell’esperienza di una speranza, di una novità, di una gioia, di una bellezza, di una libertà, di un amore, di un perdono, di una pace, di una rigenerazione, e anche di una intelligenza su tutto, a noi impossibile e impareggiabile al vaglio e al giudizio della ragione.
E cosa cambia nel rapporto con la realtà di ogni giorno - fatta di circostanze anche drammatiche - quando la vita è raggiunta dal caldo, dal calore di quella presenza? Per rispondere a questa domanda, forse sorprendendovi, desidero tornare ad incontrare e a interpellare coloro che considero i primi maestri e testimoni della felicità; cioè coloro che, dopo Maria e Giuseppe, hanno ricevuto la predilezione di essere i primi ad incontrare la Felicità in persona, ad incontrare nella carne del bambino Gesù la Felicità in persona. Quel gruppo di pastori della Palestina. Quella realtà di uomini esclusi, messi ai margini, considerati meno di niente, a cui accade la grazia di ricevere - per primi - l’annuncio della Felicità che si è fatta vicina, si è fatta carne, si è fatta un bambino di qualche chilo da andare a vedere e toccare.
Così li descrive il Manzoni nell’inno Il Natale, che abbiamo già citato all’inizio: “Senza indugiar, cercarono / l’albergo poveretto / que’ fortunati (sono dei poveri, sono degli esclusi, ma sono i più fortunati), e videro, / siccome a lor fu detto /videro in panni avvolto, / in un presepe accolto,/ (videro) vagire il Re del Ciel”. Uomini esclusi, poverissimi, ai margini, ma fortunati, prediletti, prescelti per andare a vedere vagire il Re del cielo. A quegli uomini che non speravano più nulla viene annunciata la gioia della nascita del Salvatore, della Felicità in persona, della Salvezza in persona. Dice il Vangelo: “(…) E andarono, senza indugio, e trovarono il bambino… E dopo averlo visto, riferirono… Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano… Poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto”.
Da quel momento cosa accadde alla loro vita, cosa cambiò in loro? Rispetto a questo, mi è caro riprendere e approfondire un momento di un incontro che tanti anni fa ho vissuto con voi per il Santo Natale, quando vi parlai di quei pastori e del loro ritorno a casa. “Al loro ritorno - rispetto a tutti i fattori che caratterizzavano, segnavano il loro duro e drammatico quotidiano - non era cambiato assolutamente nulla: quella puzza in cui costantemente vivevano rimase tale; le pecore restavano sempre quelle pecore da pascolare; i loro figli, le loro mogli continuavano a stare al freddo e a rimanere nella dura precarietà di quella vita di nomadi e pastori. Cosa cambiò allora? Cambiarono loro, cambiò il loro cuore, cambiò ‘l’Oggetto/Soggetto’ del loro sguardo, cambiarono l’evidenza e l’orizzonte delle loro giornate. L’evidenza e l’orizzonte non erano più quella puzza che pure rimaneva, non erano più la tragica fatica di quella vita così povera e precaria che pure rimaneva. Da quel momento in poi, l’evidenza e l’orizzonte delle loro giornate cominciarono ad essere quel bambino di nome Gesù: nel loro sguardo cominciò a prevalere la presenza di quel bambino di nome Gesù. Non cambiò niente rispetto alla durezza e alla fatica di una giornata, rispetto alla loro realtà di emarginati da tutto e da tutti; rispetto al loro dolore, al dramma del rapporto con la realtà: quello che cambiò tutto fu la presenza e la memoria viva di quel Bambino. Dentro la loro identica vita di ogni giorno, cominciò a prevalere quel Bambino, a predominare la carne di quel Bambino visto, toccato, adorato. Quel Bambino riconosciuto - come era stato detto loro - come Dio, come Dio fatto carne, il Salvatore fatto carne, la Felicità fatta carne, la Gioia piena del cuore fatta carne; come il senso, la speranza, il compimento, il destino di ogni uomo fatto carne. Questo cambiò, e cambiò tutto. In quel Bambino, nella presenza di quel Bambino, riconosciuto come il Dio-con-noi, che viene in mezzo a noi, che viene ad abitare in mezzo a noi, che cammina con noi, che si fa compagnia di Uomo all’uomo si rivela tutta la Felicità in persona e la pienezza dell’attesa del cuore di ogni uomo. In quel Bambino tutto si chiarisce e si capisce, tutto è nuovo, tutto è abbracciato, tutto comincia e ricomincia sempre. Tutto è possibile…”.
In un altro incontro di qualche anno fa, vi dicevo: “Alla presenza e nella compagnia di Gesù, anche dentro mille fatiche, errori, paure e contraddizioni, tutto quello che siamo, quello che ci accade di vivere o che siamo chiamati a vivere, tutta la realtà segnata da una molteplicità di circostanze, fattori, rapporti… tutti gli istanti anche quelli più banali o dolorosi e duri, tutto, ma proprio tutto, è pienamente abbracciato… sopportato e sopportabile, affrontato e affrontabile, possibile e resistente… Tutto emerge sempre come occasione e strada… nella sua vera bontà, bellezza, gioia, simpatia, forza e resistenza. Tutto emerge in una sua ultima ed unica positività… nella forza di un amore, di una gratuità, di un perdono che solo sono capaci di recuperare, rialzare, riaffermare e restituire sempre una nuova fisionomia originale el’esperienza di un nuovo inizio all’umano di ciascuno”.
Ecco cosa cambiò nella loro vita, ecco l’esperienza che da quel momento segnò e prevalse dentro la loro drammatica esistenza quotidiana.
Nicolino Pompei