Senza di me non potete fare nulla. Sono sicuro che ognuno di voi, qui presente, chissà quante volte avrà ascoltato, ripetuto, confermato questa affermazione di Gesù. Ma proprio per questo, come già vi ho richiamato, il rischio è quello di considerarla acquisita e scontata. E, anche se non lo ammettiamo palesemente, ora è come se dovesse riguardare altri, quelli che non credono, quelli che non hanno fatto l’incontro con la Compagnia, quelli che non vivono un cammino ecclesiale come il nostro. Sarebbe gravissimo escludersi o ritrovarsi nella scontatezza, nell’abitudine o nella superficialità rispetto a questa come ad altre provocazioni che riguardano la fede e la presenza di Gesù. Come se ci fosse un momento in cui l’avvenimento della fede o dell’esperienza del “senza di me non potete far nulla” possano essere acquisiti, risolti e gettati alle nostre spalle. Perché la fede, la presenza di Gesù non è mai e non può essere mai un “presupposto ovvio”, termine usato da Benedetto XVI in un suo discorso ai Vescovi italiani. Sarebbe la dimostrazione di non averci capito niente. Sarebbe di fatto la negazione della fede, la negazione della presenza di Cristo come attrattiva presente, come avvenimento attuale e contemporaneo, come avvenimento di vita che abbraccia continuamente l’umano, lo risveglia, lo corrisponde, lo afferma e lo compie in tutto il tempo e lo spazio dell’esistenza umana. È qui il dramma che ci riguarda sempre tutti. E attenti bene: quel “senza di me” può non significare un’assenza totale, qualcosa che manca nella nostra testa, nel nostro vocabolario esistenziale, nei nostri dialoghi quotidiani e anche nei nostri più devoti propositi. Ma può evidenziarsi come la conseguenza di una riduzione della presenza di Gesù nella sua natura di avvenimento presente, reale, incidente e decisivo della vita. Insomma, anche se la sua persona è ripetutamente nominata, può non risultare quella presenza attuale che segna la nostra quotidiana tensione di sguardo e affezione, alla quale lasciamo attaccare e guadagnare noi stessi momento per momento. Gesù può essere qualcuno che nominiamo continuamente, senza che di fatto sia riconosciuto, guardato, domandato e seguito come quella Totalità da cui attendere tutto e in cui concepire tutto noi stessi. Anzi, dobbiamo dircelo con molta chiarezza, una continua ripetizione nominalistica di Gesù – e questo vale anche per la Compagnia - è quasi sempre l’attestato di quanto la sua presenza non sia un avvenimento presente e vivo. Possiamo anche ripetutamente rievocare il folgorante incontro con Cristo, accadutoci attraverso l’incontro con la Compagnia e, di fatto, costatare amaramente di non averlo favorito e seguito come avvenimento e attrattiva del cuore nei passi successivi del nostro cammino. Ritrovandoci così, nel tempo, a far scadere la nostra adesione ad un ottuso attaccamento formalistico e volontaristico, schiacciato nell’intimismo di alcuni rapporti selezionati, in cui si è favorito più una preoccupazione organizzativa e uno schema mentale che un avvenimento di vita, più un’impalcatura di slogan e di astrazioni che l’avvenimento di una fede reale, capace di risvegliare e coinvolgere sempre l’umano, di mobilitarlo per la sua conversione a Cristo. Fino a lasciar ridurre il nostro stare insieme ad un luogo di rifugio dove cercare un po’ di conforto e di sollievo rispetto al dramma della vita, e ad un luogo di ritrovo utopico a cui assicurare il nostro umano e il nostro tempo. Per questo, quando sentiamo alcuni di noi parlare della Compagnia, possiamo ascoltare e ricevere la descrizione di una “realtà” nostalgica, sentimentale, intimistica, astratta, e non il prorompere di un’esperienza di vita e di novità centuplicata che vive e ribolle ora. Insomma, noi possiamo confermare a parole il fascino irresistibile dell’incontro con Cristo e di fatto ritrovarlo come un dato astratto, un contenuto astratto. Possiamo continuare a parlare con entusiasmo della nostra Compagnia, del dono e della grazia del nostro cammino nella vita della Chiesa, continuare ad aderire devotamente a tutto il cammino e a quello che ci viene proposto, senza che questo implichi una fede reale. Senza chela fede, la presenza di Cristo siano tutta la ragione della nostra appartenenza, siano la nostra continua domanda e attesa, la normale mobilitazione della nostra libertà e della nostra intelligenza, siano tutta la nostra tensione di sguardo e di affezione. Siano l’avvenimento in cui realmente concepiamo la nostra vita. Insomma, se la presenza di Cristo non è l’avvenimento reale, totalizzante e decisivo e non è continuamente domandata e attesa, è inevitabile che tutta la radice di concepimento e di affezione di noi stessi, nel nostro procedere quotidiano, ricada su noi stessi, sulla nostra misura e nell’inconsistenza della mentalità del mondo. Dove la fede, semmai, è solamente reperita come uno spunto a dei nostri progetti o come un sostegno a delle nostre immagini di vita, dentro cui ancora di fatto cerchiamo la nostra autoaffermazione e la vera realizzazione di noi stessi. Magari continuando a confermare che senza di Cristo non possiamo fare nulla. Possiamo continuare a confermarlo anche con molta passione e con una forte enfasi e, di fatto, ritrovarci a pensare, giudicare, rapportarci, scegliere, insomma a vivere tutto come se Cristo non fosse niente. Dovremmo essere sempre grati a chi, su questo, non ci lascia mai tranquilli, a chi ci provoca e ci “costringe” al giudizio e a non dare mai per presupposta la nostra fede, la presenza di Cristo così come la nostra appartenenza.
Comunque, ancora una volta è proprio il nostro umano che può allertarci e risultare un aiuto e un antidoto dentro questa situazione di possibile riduzione, estraneità o dualismo incombente. Il nostro umano risulta sempre un alleato formidabile, perché non sopporta nient’altro e meno della presenza di Cristo e della sua presenza come avvenimento. E ce lo mostra sempre. A patto di cominciare o continuare ad averlo veramente a cuore ea prenderlo sempre sul serio. Su questo dobbiamo essere ulteriormente chiarie rifare alcuni passaggi. Perché anche un umano ridotto nella sua vera esigenza, nella sua fondamentale struttura di bisogno e di desiderio di infinito porta, prima o dopo, a ridurre e successivamente ad estraniarsi dalla presenza di Cristo come l’avvenimento che solo è capace di essere all’altezza e pienamente corrispondente adesso. Se non si vive e non ci si sostiene incessantemente alla coscienza viva della natura del nostro umano come mistero, alla natura de nostro essere bisogno come bisogno di totalità e alla natura della nostra esigenza come esigenza di infinito, il rischio gravissimo è quello di imporre o lasciarsi imporre un’immagine snaturata e oggettivamente inadeguata alla nostra vera natura. E per questo, contemporaneamente, c’è il rischio di non sentire più urgente e decisiva la presenza di Cristo come avvenimento, di cominciare a viverla come un presupposto ovvio e, nel tempo, di sentirla come estranea oppure come un mero richiamo spiritualistico e unicamente morale. Ridotti o estranei alla vera natura del nostro umano, la presenza di Gesù sembra non servire e non rispondere più a niente, e quindi non è più attesa come presenza fondamentale e decisiva per la vita, rischiando di ritrovarsi schiacciata a delle conseguenze unicamente morali, valoriali o attivistiche, in cui emerge solo come spunto e sostegno a dei nostri comportamenti, a delle nostre immagini esistenziali, a dei nostri progetti personali e ideali, dentro cui di fatto continuiamo ad affermare noi stessi come misura e capacità di tutto. È proprio il terreno per un dualismo allo stato puro, dentro cui l’io emerge in una sostanziale frattura tra ciò che dice di credere e di attendere e ciò in cui di fatto la vita e l’umano consistono. Ma grazie a Dio - perché è Dio che ci ha fatti così - la profonda struttura del nostro umano è così irriducibile che può riaccendersi in tutto il suo imperioso bisogno in un qualsiasi momento del nostro procedere esistenziale, e farci sentire tutta la sua assoluta pretesa e mostrarsi in tutta la sua natura di mistero. Basta essere seri con un qualsiasi momento della nostra esperienza umana, con quell’esperienza di drammaticità e problematicità che emerge dal rapporto con la realtà, per essere richiamati alla reale natura e dimensione del nostro umano. Ed è proprio qui che, allora, il nostro umano si mostra come un alleato formidabile. Perché, lasciato emergere per quello che è, non può sopportare mai una minima riduzione, a qualsiasi livello, della presenza di Gesù. Il nostro cuore non sopporta mai meno o qualcos’altro della sua presenza reale. Tutta la sua assoluta pretesa è proprio la presenza di Cristo, e la sua presenza momento per momento. Per questo, se preso sul serio, può risultare un alleato formidabile per allertarci e farci riconoscere qualsiasi espressione di riduzione della presenza di Gesù in noi. Attenti bene: il richiamo ad essere sempre leali e seri con noi stessi non è solo rivolto alla libertà e alla ragione di ciascuno, ma anche alla realtà della nostra amicizia. Se non ci si aiuta a questo lavoro di giudizio, nella certezza che l’iniziativa della Grazia su di noi è incessante e sempre più forte di qualsiasi riduzione o estraneità, noi ci giochiamo tutta la credibilità di ciò che affermiamo del nostro essere amici.
Perché senza di me non potete fare nulla. Se è questa la reale coscienza di noi stessi, se quello che cerchiamo è realmente Cristo, se effettivamente attendiamo tutto da lui, questo si attesta in maniera evidente nel nostro umano che si rapporta con la realtà. Lo ripeto ancora: è una grazia che emerga. Come è una grazia che non si riesca fino in fondo a costringere il nostro umano a ciò che noi immaginiamo e pensiamo. E la presenza di Gesù è così inseparabile da noi, è così indomabile e definitiva da permettere a ciascuno, in qualsiasi momento, di poter essere profondamente risvegliato e di potersi riattaccare in un attimo alla sua presenza vitale. Sì, l’infinita misericordia di Dio non permette mai, nella vita di coloro che sono chiamati al suo amore, che accada qualcosa se non per una rinnovata coscienza di se stessi, per essere risvegliati all’esigenza più profonda dell’umano, per un cammino di maturazione e di radicamento nella fede. Ed è un’ulteriore espressione della grazia e della fedeltà di Dio poter essere aiutati a verificare e a non dare mai per scontata la nostra appartenenza e la nostra reale amicizia. Perché se questa nostra appartenenza e la realtà della nostra amicizia non sono per la presenza di Gesù, per l’attaccamento della nostra vita a lui, innanzitutto è un tradimento verso il nostro cuore e la nostra originale vocazione e, prima o dopo, ci toccherà perfino constatare la perdita di interesse e di valore e un senso di distacco anche dalla stessa compagnia e amicizia. Per questo, anche dopo anni di cammino, ci si può ritrovare più abbrutiti, immaturi, inconsistenti e tristi di quanto la nostra vita fosse segnata prima dell’incontro con essa. Se non è per la presenza di Cristo tutto quello che viviamo, non solo non basta e non corrisponde all’esigenza del cuore, ma la grave conseguenza è quella di poterci ancora trovare ad inseguire immagini di soddisfazione e di realizzazione a cui tentiamo di attaccare la vita. Magari anche nell’apparenza di una esistenza generosamente e devotamente impegnata dentro cui si è ridotta la nostra appartenenza. Possiamo anche porre delle opere in nome di Gesù, indicarle come conseguenza dell’avvenimento di Cristo in noi, e constatare di fatto una vita estranea all’avvenimento di Gesù, nel predominio della nostra misura, in un intimo amor proprio, nell’ostinato tentativo di affermare solo noi stessi. Possiamo aver desiderato il sacramento del matrimonio con tutte quelle ragioni perfette e coerenti con la legge della Chiesa, imparate nel cammino della Compagnia, che abbiamo fortemente voluto condividere a tutti, e ritrovarci oggi in un rapporto coniugale contrassegnato da un ossessivo predominio sull’altro, sull’amore o sui figli. Possiamo stare e vivere da molti anni in Compagnia e sentire l’umano come astratto ed estraneo, il Mistero come astratto ed estraneo, la presenza di Gesù come astratta ed estranea; trovarci a descrivere e a vivere la realtà senza la coscienza del Mistero, senza la coscienza della nostra dipendenza originale, come se Cristo non ci fosse o al massimo come se fosse un sentimento interiore e uno spunto idealistico: mi dite che razza di appartenenza è? Mi dite che razza di cammino stiamo vivendo? Sarà urgente metterli finalmente a tema e porli al vaglio di un giudizio serio e leale? Essere ancora una volta abbracciati, senza alcun merito, dalla grazia di un gesto così, con una provocazione tematica come quella che abbiamo scelto, è una misericordiosa occasione di guadagno per tutti. Sì, di guadagno per ciò chela vita attende di ricevere come sua consistenza e soddisfazione: Gesù, la sua presenza adesso, la sua compagnia sempre e per sempre. Ed è nell’accadimento incomparabile e constatabile di questo guadagno della vita in lui che si afferma irrefrenabile l’avvenimento di un’attrattiva verso Gesù. Per un uomo che emerge in tutta la sua vera natura, l’incontro con Cristo non può che imporsi come una attrattiva travolgente, in cui lasciare trascinare tutto se stesso, lasciare concepire la vita in ogni suo istante, circostanza e rapporto. Come sintetizza magnificamente l’espressione di Romano Guardini:“Nell’esperienza di un grande amore tutto diventa avvenimento nel suo ambito”.