L'amore di Dio alla mia miseria in alcuni testi letterari
- di Paolo Vallorani -
da Nel Frammento anno XIV numero 4
C’è un tratto dell’insegnamento che riceviamo da Nicolino con cui desidero introdurre e da cui lasciar guidare il mio articolo: “Considerando la suggestiva derivazione etimologica della parola misericordia, possiamo vedere che essa è formata da due parole: «miseria-ae» e «cor- cordis», miseria e cuore/amore, quindi amore alla mia miseria, che è possibile solo a Dio, può venire solo da Dio. Ma c’è anche un richiamo che possiamo ricevere: se togliamo la miseria, la nostra miseria, come potremo incontrare e sperimentare questo amore che è solo e sempre misericordia? L’onnipotenza di Dio che è solo misericordia non si mostra e non agisce se non attraverso la nostra debolezza, la nostra miseria” (Nicolino Pompei, Ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato). È stato ancora una volta sorprendente considerare come alcuni amici, vissuti tanti o pochi secoli prima di noi, abbiano saputo descrivere il mirabile dinamismo che è l’incontro fra i nostri peccati e la mossa continua ed inarrestabile di Dio. Nell’ottavo canto del Paradiso, Dante con questi versi mirabili afferma: “Per non soffrire alla virtú che vole/freno a suo prode, quell'uom che non nacque/dannando sé, dannò tutta sua prole;/onde l'umana specie inferma giacque/giú per secoli molti in grande errore/fin ch'al Verbo di Dio discender piacque/u' la natura, che dal suo fattore/s'era allungata, uní a sé in persona/con l'atto sol del suo etterno amore/. Non potendo sopportare un freno alla sua volontà, Adamo peccò, rendendo così infelice sé e tutta la specie umana. Per questo, l’umana specie giaceva inferma ed in grave errore. Così è rimasta per secoli, finché al Verbo di Dio piacque discendere proprio là in quella condizione dove stava la creatura che staccandosi si era allontanata da Lui. Dio lo ricongiunse a sé con il Suo atto d’amore. Nell’Inno Sacro “Natale 1813” Alessandro Manzoni riecheggia i versi di Dante: “Qual masso che dal vertice/ Di lunga erta montana,/ Abbandonato all'impeto/ Di rumorosa frana, /Per lo scheggiato calle/ Precipitando a valle,/ Batte sul fondo e sta;/ Là dove cadde, immobile/ Giace in sua lenta mole;/ Né, per mutar di secoli,/ Fia che riveda il sole/ Della sua cima antica,/ Se una virtude amica/ In alto nol trarrà:/ Tal si giaceva il misero/ Figliol del fallo primo,/ Dal dì che un'ineffabile/ Ira promessa all'imo/ D'ogni malor gravollo,/ Donde il superbo collo/ Più non potea levar./ Qual mai tra i nati all'odio,/ Quale era mai persona,/ Che al Santo inaccessibile/ Potesse dir: perdona?/ Far novo patto eterno?/ Al vincitore inferno/ La preda sua strappar?/ Ecco ci è nato un Pargolo (…)”. L’uomo, il figlio di Adamo giaceva come la cima di una montagna che staccatasi dalla sommità era caduta rovinosamente a terra. Così stava l’uomo dal giorno in cui un’ira indescrivibile l’aveva condannato all’inferno e lo schiacciava. Da quello stato, l’uomo non avrebbe mai più potuto rialzar il collo superbo, con cui si era rivoltato al suo Creatore. Il trascorrere ed il mutare del tempo non avrebbero potuto consentire all’uomo di risollevarsi da tale condizione e così sarebbe stato, se una forza amica non l’avesse tratto in salvo. Chi mai fra i nati all’odio avrebbe potuto rivolgersi al Santo inaccessibile e chiedergli perdono? O fare un’alleanza nuova ed eterna? Chi avrebbe mai potuto strappare la preda all’inferno? Ecco, è nato per noi un pargoletto, un bambinello.
Cos’altro è questo che ho riportato con i versi di Dante e Manzoni se non la descrizione della nostra condizione umana? Quella stessa condizione che Cesare Pavese nel racconto “Piscina feriale” fotografa con quest’affermazione: “Ma siamo tutti inquieti, chi seduto, chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda.” L’Atteso però non è rimasto lontano… “Fin ch'al Verbo di Dio discender piacque/u' la natura, che dal suo fattore/s'era allungata, uní a sé in persona/con l'atto sol del suo etterno amore…” e “Se una virtude amica/In alto nol trarrà…”.
Riprendo il tratto già menzionato dell’intervento di Nicolino: “se togliamo la miseria, la nostra miseria, come potremo incontrare e sperimentare questo amore che è solo e sempre misericordia?”. Nel romanzo medievale “Perceval” di Chretienne de Troyes, si trova un accenno di questa miseria e di cosa avviene se la nostra libertà non si sposta dalla parte di Chi le è necessario. “Perceval si sente così colpevole verso Dio che si prosterna ai piedi dell'eremita e con le mani giunte lo prega di consigliarlo, ché ne ha gran bisogno. Il sant'uomo gli dice di confessarsi perché non avrà alcun perdono se non si confessa e si pente delle colpe. «Signore», dice Perceval «da cinque anni, ovunque io fossi e qualunque cosa facessi, ho scordato Dio e la mia fede e ho fatto solo male». Ebbene, caro amico dice il valent’uomo «dimmi per ché facesti così e prega Dio che abbia pietà della tua anima peccatrice.» «Signore, fui un giorno dal Re pescatore e vidi la lancia cui ferro sanguina senza posa e nulla ho cercato di sapere di quella goccia di sangue che cola dalla bianca punta d’acciaio. Meglio non ho fatto in seguito, e del vaso che vidi non so a che fosse servito. Da quel momento ho avuto tal duolo che ho desiderato morirne dimenticando Dio. Non ho chiesto perdono e nulla ho fatto, che io sappia, per essere perdonato.» Il tuo peccato ti ha ghiacciato la lingua quando il ferro, che nessuno asciugò, sanguinò davanti ai tuoi occhi. La tua ragione non si svegliò, ed è per tua follia che non sapesti chi usa quel Graal. Colui a cui si serve è mio fratello: tua madre fu sorella mia e sua. E sappi che il Re Pescatore è il figlio di quel re che si nutre del Santo Graal. Sebbene il peccato ci ghiacci la lingua e la nostra ragione si intorpidisca, il nostro cuore che è fatto da Dio e per lui, non ci dà tregua e non solo, come ci testimonia Nicolino: “nemmeno il nostro peccato, il nostro tradimento, tutta la nostra riduzione e la nostra debolezza mortale sono capaci di spezzare questo vincolo: certo a meno che non siamo noi a voltargli le spalle. Ma anche lì questo vincolo d’amore non verrebbe mai meno, pronto sempre a riaccoglierci. È un amore, un vincolo d’amore irrevocabile” (Nicolino Pompei, Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino?). Flaubert descrive così il momento in cui Emma Bovary, una donna rimasta sfiancata e delusa dal vedere sfumare la realizzazione dei suoi sogni, si procura la morte avvelenandosi. Proprio prima di spirare, Emma viene raggiunta dal sacerdote…: “Il sacerdote si alzò per prendere il crocifisso; allora Emma protese il collo come un assetato e, appoggiando le labbra sul corpo dell'Uomo-Dio, vi posò con tutte le forze che ancora le rimanevano il più appassionato bacio d'amore che mai avesse dato. Poi il prete recitò il Misereatur e l'Indulgentiam, immerse il pollice nell'olio e cominciò l'unzione: prima sugli occhi, che avevano tanto bramato i lussi e gli splendori terreni, poi sulle narici, desiderose di aspirare tepide brezze e sentori amorosi, quindi sulla bocca che si era aperta per pronunciare menzogne, e aveva emesso gemiti d'orgoglio e grida di lussuria, e ancora sulle mani che si dilettavano ai soavi contatti, infine sulle piante dei piedi, un tempo così rapidi quando correvano verso l'appagamento del desiderio e che ormai non avrebbero più camminato.
L’ultimo “volto” di questo percorso lo lascio introdurre ancora da Nicolino: “L’onnipotenza di Dio che è solo misericordia non si mostra e non agisce se non attraverso la nostra debolezza, la nostra miseria”. La nostra miseria diventa la condizione dentro cui si manifesta l’onnipotenza di Dio il suo essere Misericordia. Questo ho trovato nella vicenda paradossale di un carnefice, un generale delle SS. Si chiamava Rudolf Hoss un gerarca nazista, comandante del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Quest’uomo aveva diretto l’esecuzione di circa tre milioni di persone: per questo fu giudicato e conseguentemente accusato e condannato a morte per crimini contro l’umanità. Höss, durante la detenzione, chiese di potersi confessare. Le guardie cercarono un sacerdote disponibile ma nessuno era disposto a ricevere la sua confessione! Hoss si ricordò improvvisamente di padre Wladyslaw Lohn, al quale anni prima aveva risparmiato la vita. Supplicò le guardie di cercarlo. Il gesuita, rintracciato proprio nel santuario della Divina Misericordia di Cracovia, dove era diventato cappellano delle suore della Beata Vergine Maria della Misericordia, accettò di confessare Höss. La confessione «durò e durò e durò, finché non gli diede l’assoluzione: “Ti sono perdonati i tuoi peccati. Rudolf Hoss, tu “l’animale”, i tuoi peccati ti sono perdonati. Vai in pace». Il giorno successivo, prima dell’esecuzione, il gesuita tornò per dare la Comunione al condannato. La guardia che era presente raccontò che quello fu uno dei momenti più belli della sua vita: «Vedere quell’animale in ginocchio, con le lacrime agli occhi, come un bambino che sta per ricevere la Prima Comunione, Gesù, con il cuore».