da Nel Frammento anno XIV numero 3/2016
“Per la prima volta in Belgio lo scorso 17 settembre è stata richiesta l’applicazione dell’eutanasia su un minore”. Una notizia che ho percepito così, infilata tra le tante del TG… tra quelle del terrorismo e del prossimo referendum costituzionale, tra quelle della politica italiana e delle prossime elezioni in USA…
Quello che immediatamente mi ha colpito è stato il tono sommesso e gelido con cui la notizia è stata diffusa. Presa dall’urgenza di capire meglio ho provato ad approfondire in internet e subito ho trovato uno scarno riferimento ad un articolo del quotidiano fiammingo Het Nieuwsblad che, riportando le parole di Wim Distelmans, direttore del Centro di controllo dell'eutanasia, scriveva: “In silenzio e nella discrezione più assoluta per la prima volta nel nostro Paese un minorenne è morto per eutanasia”. “Può essere vero?”, mi sono chiesta! Il Centro di controllo dell'eutanasia (o anche detto Dipartimento di controllo federale e valutazione dell'eutanasia) è l’organo che deve approvare l’autorizzazione alla pratica che avviene su richiesta dei genitori, precedentemente sottoposta al medico curante e in concomitanza ad una espressione di consenso del figlio minore in condizioni “terminali”.
“Il minore soffriva di dolori fisici insopportabili - continuava Wim Distelmans - e i dottori hanno usato dei sedativi per indurre il coma come parte del processo”. Pare sia stata rivelata in qualche modo l’età del minore, diciassette anni, ma nessuna precisazione sul fatto che fosse un ragazzo o una ragazza. Quel giorno ho avuto subito l’impeto di continuare a cercare notizie con un vuoto nello stomaco che chiedeva di essere sfamato: “In che senso il primo caso?”. E ho capito meglio: ogni Paese in cui è stata approvata una legge che consente di scegliere la strada dell'eutanasia prevede limiti di età e modi di applicazioni differenti della stessa. In Belgio, appunto, la legge è entrata in vigore nel 2002, ma dal 2014 è prevista la possibilità di applicare l’eutanasia anche ai minori senza alcun limite di età (primo caso al mondo, appunto, visto che in Olanda la stessa legge può essere applicata per ragazzi minori ma di età non inferiore a 12 anni), purché anche il bambino dia il suo consenso ai genitori che ne fanno richiesta. “Fortunatamente ci sono pochissimi casi di bambini che ci vengono sottoposti, ma questo non significa che dobbiamo rifiutare loro il diritto a una morte dignitosa”, aggiungeva il direttore del Centro concludendo la sua breve intervista.
Ripenso alle ragioni sacrosante e ai valori che continuano a convincermi del fatto che questa cosa sia una follia: la sacralità della vita, i falsi diritti (come quello di morire), la falsa espressione di libertà (che libertà è se si esprime per la morte e quindi autodistruggendo sé stessa?). Mi tornano in mente le parole di San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium vitae: “Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile”, e nel mio cuore e con la mia esperienza le confermo tutte. Passo alla scienza: in quale direzione si sta dirigendo il progresso scientifico? Quali sono i parametri per giudicarlo, riconoscendone anche le derive? Chi stabilisce i criteri di giudizio sulla qualità della vita o tra vite degne e vite indegne di essere vissute? E ancora “pietà”, “compassione”, “carità” … come possiamo pensare che si esprimano, di fatto, aiutando un altro a morire piuttosto che a vivere? Questa volta ci sono anche le motivazioni di tipo legale: come può un bambino malato esprimere il proprio consenso? Come possiamo essere sicuri che la sua volontà non venga condizionata dagli adulti, dagli psicologi chiamati dalla legge a garantire un colloquio atto a raccogliere ufficialmente questo suo consenso? E tanto altro… Tutto vero! Profondamente vero! Eppure tutto questo non mi bastava in quel momento come non basta ora che sto scrivendo. Il mio pensiero tornava e ritorna a quel ragazzo (o ragazza) di diciassette anni con “dolori fisici insopportabili”, io che di figli, per grazia, ne ho quattro. Intanto penso alla sua mamma, quella mamma di fronte alla malattia del figlio… e penso a me! Penso che la vera questione al fondo sia questa: guardare in faccia lo scandalo che la sofferenza è capace di suscitarci e che reclama una risposta di senso e significato pieno per la vita tutta intera. E non c’è nessun ragionamento che possa aggiustare, smorzare, evitare questo scandalo. Nemmeno un ragionamento sulla fede. “La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre - scrive Papa Francesco nella Lumen Fidei - ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, «dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb.12,2)”. Sì, è quello che mi è accaduto più di venti anni fa e che continua ad accadere alla mia vita: una presenza che mi accompagna, una storia di bene che si unisce alla mia storia personale per aprire in essa un varco di luce. Allora io posso camminare, di istante in istante, di circostanza in circostanza, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Sì, è quello di cui ho bisogno io, ora. Nessuna bravura, nessuna capacità (Dio ci scampi dal tornare a confidare sulle nostre capacità). Semplicemente un lasciarsi accompagnare, appunto, da un Uomo che nella storia ha avuto la pretesa di definirsi Via, Verità e Vita. Mi ferisce ancor di più in questo momento riprendere le parole scritte da Maddalena, una ragazza che il mio amico Roberto mi ha fatto conoscere il giorno che è tornata in Cielo. Scriveva qualche settimana prima: “A volte, per affrontare il mondo intero, basta sapere che c’è qualcuno con te”. Così come il poeta Betocchi qualche anno fa: “Ciò che occorre è un uomo, non occorre la saggezza, ciò che occorre è un uomo in spirito e verità; non un paese, non le cose, ciò che occorre è un uomo, un passo sicuro e tanto salda la mano che porge, che tutti possano afferrarla, e camminare liberi e salvarsi”. Dunque, e tanto più di fronte allo scandalo della sofferenza, io non trovo in me nessuna insita, innata e coraggiosa resistenza (tutt’altro), nessuna convinzione puramente teorica (forse in alcuni momenti del passato sì). La mia “capacità” sta nel lasciarmi continuamente afferrare e portare dalla presenza contemporanea di un Uomo che mi ha fatto, corrispondendola, e continua a farmi una promessa: quella della felicità e della vita piena, della vita vera, del centuplo quaggiù e della vita eterna. Quindi un’elezione. E una missione. “Nella promessa di Gesù - scrive Nicolino - non c’è la semplificazione di nessun fattore della vicenda umana, e quindi della morsa di dolore, di sofferenza, di tragedia che la caratterizzano (…). La sua promessa è la sua vittoria, già come esperienza adesso, su tutto ciò che ci sovrasta e ci annichilisce sempre. È la sua vittoria su tutto quello che ci vince, è la sua presenza redentiva e misericordiosa che ci strappa dall’incidenza paralizzante del nostro peccato, della nostra strutturale fragilità; e che ci rialza sempre, ci rigenera sempre, ci fa ricominciare sempre a camminare tesi al Destino - il centuplo; che ci dispiega un’onnipresente, inalterabile, inarrestabile ultima positività come esperienza dentro alla totalità del reale - il centuplo. Movente sicuro di uno sguardo commosso su tutto e di una inevitabile compagnia di amore ad ogni uomo - il centuplo; che apre, sostiene e sorregge la vita alla vera speranza, nella certezza della vittoria di Cristo già nell’adesso - il centuplo - e nella tensione al suo destino, in cui questa sarà definitivamente vita eterna - e in eredità la vita eterna” (Nicolino Pompei, Il centuplo adesso e in eredità la vita eterna). Sì, di fronte a questo tragico evento come di fronte alla vita tutta intera, quello che c’è da chiedere ardentemente e da desiderare tenacemente, è che la vittoria di Cristo, la Sua pretesa e la Sua promessa, possano continuare ad essere una esperienza viva in me, in noi, sempre! È Lui, e solo Lui…, è la Sua Presenza redentiva e misericordiosa, è l’esperienza della Sua salvezza (una salvezza che non riguarda immediatamente l’aldilà ma innanzitutto l’aldiquà… che ha che fare con il nostro umano nel suo quotidiano rapporto con la realtà), che ci convince e ci rende testimoni credibili, anche per altri, del fatto che non siamo soli, e non siamo polvere! E che compie il miracolo, perché impossibile a me e a ciascuno di noi: renderci lampada che illumina, mano che afferra, passo che sorregge, sguardo che sostiene… magari proprio un ragazzo (o ragazza) di diciassette anni “con dolori fisici insopportabili” … e la sua mamma!