Lasciando questi ragazzi

Pensieri di Takashi Paolo Nagai ai suoi figli

Morto in odore di santità nel 1951, a 43 anni...

01 Novembre 2023

da Nel Frammento, NUMERO 3 / ANNO 2023


Nato nel 1908, il giapponese Takashi Nagai, medico e scienziato, si convertì al Cristianesimo e assunse il nome di Paolo ricevendo il Battesimo. Già malato di leucemia mieloide a causa dell’elevata esposizione alle radiazioni per via del suo lavoro di radiologo, sopravvisse allo scoppio della bomba atomica a Nagasaki dove perse la moglie Midori. Rimasto solo coi figli, ancora molto piccoli, scrisse quello che chiamò il suo registro di famiglia, raccogliendo ciò che da grandi Makoto e Kayano avrebbero potuto leggere, ritrovandosi così accompagnati e guidati dalla testimonianza e dall’insegnamento del padre, che sapeva di avere ancora pochi anni da vivere. È particolarmente a questo dialogo di amore ed educazione con i figli che dedico questo mio articolo su Takashi Paolo Nagai, morto in odore di santità nel 1951, a 43 anni.

MEDICO E SCIENZIATO

Takashi

Un paragrafo del libro Lasciando questi ragazzi è dedicato al dialogo tra Takashi e suo figlio Makoto, nel momento in cui, a tredici anni, gli dice il desiderio di diventare medico radiologo come lui. Il padre cerca di aiutarlo nel discernimento di questa scelta dandogli dei criteri di valutazione. Innanzitutto gli domanda cosa lo spinge ad intraprendere questa carriera, non volendo che lo faccia solo per sua emulazione. Gli chiede poi di essere aperto a guardare come la realtà si svilupperà negli anni a venire, quando lui non ci sarà più, per riconoscere a quale specializzazione medica dovrà dedicarsi.

Takashi era un medico ed un professore universitario molto stimato. Appassionato alla ricerca scientifica, era profondamente dedito al suo lavoro. Durante la guerra, assunse consapevolmente il rischio di esporsi eccessivamente alle radiazioni pur di non far mancare le dovute cure ai pazienti. “I giovani assistenti del laboratorio furono costretti, uno dopo l’altro, a partire per il fronte di guerra e mai fecero ritorno. L’istituto rimase a corto di personale e io mi vidi obbligato ad accollarmi i compiti di molte di quelle persone. Dovevo tenere i corsi all’università e le lezioni alla Scuola Specialistica Temporanea di Medicina, portare avanti le numerose ricerche nell’ambito del Programma di Mobilitazione della Scienza e condurre le attività cliniche per la prevenzione della tubercolosi su grandi gruppi di persone nelle fabbriche, nelle scuole e per le associazioni di lavoratori. Ciò comportava fare visite mediche e diagnosi, impostare la terapia e il trattamento con i raggi. Ciascuna di quelle attività, svolta come si deve, costituiva di per sé un lavoro a tempo pieno di un medico e di un professore ma a me venne chiesto di portarle avanti tutte da solo. Era un lavoro enorme. Tornavo a casa quando era già notte fonda. Sulla via del ritorno dovevo fermarmi per strada più volte per accovacciarmi e riprendere le forze, incapace di proseguire il passo. E non di rado, a metà strada, trovavo mia moglie, tutta preoccupata, che mi veniva incontro e mi caricava sulla spalla per trascinarmi a casa, dove mi aspettava, già pronto, un bicchiere di zabaione caldo… che gioia!”.

Ai figli Makoto e Kayano Takashi ripeteva spesso che non dovevano tanto preoccuparsi di cosa fare ma di come facevano ogni cosa. Diceva: “Saremo giudicati da Gesù su come avremo amato, su come avremo lavorato, su come avremo studiato, sia che l’azione sia banale come tagliarsi le unghie sia che siamo chiamati ad esempio a compiere grandi scoperte scientifiche. Dobbiamo fare tutto per la gloria di Dio”.


LA MALATTIA DA RADIAZIONI

Tredici anni dopo l’inizio delle sue ricerche e cinque anni dopo quella intensissima attività assunta come sacrificio, la malattia da radiazioni arrivò e si manifesto in Takashi nella forma di una leucemia mieloide cronica con anemia aplastica che gli avrebbe consentito di vivere al massimo altri tre anni. Dopo aver ricevuto la conferma della diagnosi, la sera stessa Takashi lo comunicò alla moglie Midori. “Lei rimase immobile ad ascoltarmi e, trattenendo in cuore la pena che aveva, mi disse: ‹‹Sia che viviamo, sia che moriamo, è per la gloria di Dio››. Quando le domandai che cosa ne sarebbe stato dei nostri due figli, lei mi rispose: ‹‹È il lavoro al quale hai sacrificato la tua vita. Certamente vorranno seguire le tue orme››. Quelle parole mi ridonarono la pace. Ero pronto a tornare a lavorare in laboratorio, senza più paura per il futuro, fino al giorno in cui sarei crollato. Il giorno seguente andai in classe a fare lezione, col nuovo vigore che mi era stato infuso. Ero una persona completamente nuova, capace di dare tutto me stesso”.


LA BOMBA ATOMICA

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Il 9 agosto 1945, tre giorni dopo Hiroshima, Nagasaki fu colpita dagli Stati Uniti con l’esplosione di una bomba atomica. Così Takashi racconta quel momento: “Mi trovavo nella stanza del radio e vidi un lampo di luce. In quell’istante il mio presente fu spazzato via, il mio passato cancellato e il mio futuro annichilito. Davanti ai miei occhi, la mia amata università, insieme ai miei amati studenti, erano diventanti un ammasso di fiamme. Mia moglie, alla quale avevo affidato i miei figli dopo la mia morte, era ridotta a pochi frammenti di ossa che trovai tra le rovine della nostra casa bruciata e che raccolsi in un secchio insieme al suo rosario con la croce di metallo. Era morta in cucina. Quanto a me, alla mia malattia cronica da raggi si aggiunsero gli effetti acuti delle radiazioni nucleari della bomba che, insieme alle ferite che riportai sul lato destro del corpo, mi resero incapace di muovermi prima ancora del previsto. Per grazia, i due bambini, che avevamo mandato con la nonna in montagna solo tre giorni prima, erano sopravvissuti illesi”. Nell’esplosione della bomba atomica Takashi perse anche tutto il materiale frutto di dieci anni di ricerche, attorno a lui sembrava essere rimasta solo la landa atomica. In quello stato, dopo una mezza giornata di disperazione, si sentì chiamato a rimettersi subito in gioco nello studio e nella cura della malattia atomica. “C’erano numerosissime vittime della bomba atomica che morivano dopo aver sviluppato i sintomi più disparati e io mi angustiavo al pensiero di trovare il modo di aiutarle tutte. Non avevo mai percepito così acutamente come allora quale fosse il valore dell’esistenza di un medico. Passai due mesi, col corpo storpio e ferito appoggiato a un bastone, attraversando montagne, campi e fiumi per andare a visitare i miei pazienti”. Il 20 settembre 1945 fu costretto ad interrompere il suo lavoro perché lui stesso sviluppò una febbre molto alta e sintomi gravi per cui dovette allettarsi. Nel suo libro Pensieri dal Nyokodō Takashi racconta che sarebbe sicuramente morto subito se non avesse ricevuto il miracolo della guarigione temporanea da parte della Vergine di Lourdes per intercessione di san Massimiliano Kolbe.


UN LUOGO UMANO PER MAKOTO E KAYANO

Takashi sapeva che presto avrebbe dovuto lasciare i suoi figli, che ancora piccoli sarebbero rimasti orfani di entrambi i genitori. In Giappone, dopo la guerra e la devastazione delle due esplosioni nucleari, il numero degli orfani era elevatissimo. Takashi dedica molti paragrafi del suo libro a descrivere la condizione dei bambini e dei ragazzi negli orfanotrofi. Si domanda continuamente perché scappino da luoghi dove hanno un letto caldo e buon cibo mentre la maggior parte della popolazione vive in condizioni di fortissima indigenza. Capisce che i beni materiali non bastano per essere felici. Dice espressamente che non vorrebbe mai che Makoto e Kayano fossero accolti in un orfanotrofio e neppure in una famiglia adottiva. È sorprendente il travaglio che attraversa e il cammino umano che compie. L’unica realtà che sconvolge il suo pensiero su questo aspetto è l’orfanotrofio dei Missionari della Consolata, fondato da padre Kolbe nei pressi di Nagasaki,e la scuola delle suore di Santa Teresina di Lisieux. Takashi resta ammirato da come questi uomini e queste donne amano gli orfani che accolgono ed è solo un luogo così che desidera per i suoi bambini.

Particolarmente significative sono le ultime parole che rivolge loro, avvicinandosi alla morte: “Io desidero questo: che voi viviate la vostra vita amando Dio nella gioia e nella semplicità. Non lasciatevi sviare dal vero scopo della vita”.

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LA COMPAGNIA DEI SANTI CIOÈ DEGLI UOMINI VERI

In queste settimane, l’amicizia di Takashi è per me una compagnia particolarmente intensa. Seguendo un suggerimento di Nicolino che me lo ha posto accanto, è il volto tra i santi che più guardo in questo ultimo periodo, trovando sempre grande riposo nei suoi discorsi - come dice la Didaché - e totale attrattiva nella sua testimonianza. Nel dramma della mia quotidianità, continua a favorire la chiarezza del mio desiderio e a sostenere il mio sguardo e il mio attaccamento a Cristo, richiamandomi l’esperienza di Fides Vita. È un vero amico. Alla sua intercessione affido Nicolino, la nostra amata compagnia e tutto il nostro popolo in cammino.

Barbara Braconi

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