Per non dimenticare i milioni di fratelli sparsi nel mondo che soffrono le atroci conseguenze della guerra, abbiamo voluto occuparci di alcuni dei trentasei conflitti che ancora oggi insanguinano il nostro pianeta, accogliendo l’invito del Papa, nel suo ultimo viaggio apostolico in Thailandia e Giappone, a pregare e ad agire per l’edificazione della cultura della pace tanto anelata.
“Una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, come l’ha definita Papa Francesco, è in atto in diversi Stati del nostro pianeta. La situazione geopolitica mondiale presenta all’attivo trentasei conflitti concentrati per la maggior parte in Africa e in Medio Oriente; ma anche in America Latina ci sono situazioni critiche soprattutto in Colombia e in Messico, per la guerra contro i gruppi ribelli e quelli del narcotraffico. Non accenna inoltre a placarsi la tensione in Venezuela, vittima del dispotismo di Maduro.
I Paesi del continente africano particolarmente colpiti da estenuanti guerre sono quelli della fascia subsahariana. Fra i territori in questione, il Ghana, il Ciad, la Nigeria, l’Eritrea, il Sud Sudan e la Somalia. In nessuno di essi vige un regime democratico né vi è un’istituzione che prenda minimamente in considerazione i diritti umani fondamentali. Gli abitanti di questi Stati sono inevitabilmente dominati dal potere di un dittatore o di un regime.
Il Ciad, uno dei Paesi più poveri della Terra, combatte guerre interne ed esterne da decenni. Dopo quella con il Sudan (2005-2010) ora è in conflitto con il gruppo jihadista Boko Haram, molto attivo nella vicina Nigeria. In Sudan invece è in corso una guerra civile pluriventennale.
Il Darfur, una zona grande quanto due volte l’Italia, è teatro di un violentissimo conflitto fra gruppi armati locali e milizie filo-governative. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 2003 ad oggi sono morte oltre settantamila persone. Una “guerra mondiale africana”, com’è stata definita, vede scontrarsi nel Congo gli eserciti regolari delle multinazionali per il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro, coltan (minerale raro, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nelle industrie bellica, spaziale e delle comunicazioni) e cobalto, utilizzato per le batterie dei telefonini. Lo scontro fomentato da interessi affaristici si combatte nel più assoluto ed ipocrita silenzio dei mass media ufficiali. Circa sei milioni le vittime; se, oltre alle armi, si considerano le carestie e le malattie causate dai combattimenti.
L’Eritrea, in cui non ci sono elezioni dal 1993, è un regime dittatoriale del presidente Isaias Afewerki. Sul governo grava l’accusa da parte delle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità. Secondo le stime Onu, centinaia di migliaia di eritrei sono fuggiti dal Paese negli ultimi anni, intraprendendo un pericoloso viaggio attraverso il Sahara e il Mediterraneo, fino all’Europa. Per legge, ogni eritreo è costretto alla leva obbligatoria di diciotto mesi, ma in pratica il periodo di servizio militare è indefinito, può prolungarsi anche per tutta la vita. La leva è considerata alla stregua della schiavitù e i soldati sono spesso costretti ai lavori forzati, oltre che ad abusi fisici e sessuali. L’Eritrea viene spesso definita “la Corea del Nord dell’Africa” o “prigione a cielo aperto”. Migliaia di prigionieri politici e “di coscienza” (imprigionati sulla base di caratteristiche quali: razza, religione, colore della pelle, lingua, orientamento sessuale e credo politico) continuano ad essere detenuti arbitrariamente senza un processo.
Da anni la Libia vive una situazione di forte instabilità politica, a causa di guerre e tensioni interne. Qui due governi si contendono la legittimazione e il controllo del Paese. Il Governo di Accordo Nazionale che ha sede a Tripoli, gode dell’appoggio delle Nazioni Unite, l’altro, noto come Governo Provvisorio, è a Tobruch. Nel drammatico scontro, si è insinuato anche lo Stato Islamico (Isis), senza contare le varie tribù. Come se ciò non bastasse, la Libia è un territorio di passaggio per quasi tutti i migranti che dall’Africa si dirigono in Europa. Infatti la maggior parte di loro e dei richiedenti asilo che riesce a raggiungere il nostro continente via mare parte con imbarcazioni dalle coste libiche. Molti di loro finiscono detenuti e subiscono percosse, estorsioni, sequestri e violenze sessuali per mano di guardie, milizie e contrabbandieri. Alcuni prigionieri vengono sottoposti alle torture più efferate per costringere i loro parenti a pagare il riscatto.
La situazione che da anni regna in Medio Oriente sarebbe quella di una vera e propria guerra. Fra tutti il conflitto israelo-palestinese continua a protrarsi dal secondo dopoguerra, nonostante la dichiarazione di Camp David del 2000 sottoscritta dal Primo Ministro israeliano Ehud Barak e dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat davanti all’allora presidente degli Stati Uniti: Bill Clinton. Questi indicava l’obiettivo di “porre fine a decenni di conflitto e raggiungere una pace giusta e duratura”.
Quello che affligge lo Yemen, attualmente il Paese più povero del mondo, nasce come scontro fra i ribelli sciiti del Nord contro il governo di Abed Rabbo Mansour Hadi, appoggiato dall’Occidente. Ciò ha prodotto l’intervento dell’Arabia Saudita, appoggiata dagli Stati Uniti, e dell’Iran a fianco delle fazioni contrapposte. Questa situazione è diventata il terreno fertile per la proliferazione di Al-Qaeda, che proprio nello Yemen ha la cellula più forte, cioè AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula), e dell’Isis. Le vittime ammontano a più di diecimila.
Dal 2012 la Siria è dilaniata da una guerra civile, iniziata con l’obiettivo di ottenere le dimissioni del presidente Bashar al-Assad al potere dal 2000. Gli ultimi anni della Siria sono stati i più bui della sua storia: lo scenario si è complicato nel 2014 con l’occupazione di vaste regioni da parte degli integralisti islamici dell’ISIS che hanno compiuto massacri di civili e distrutto millenari resti archeologici (a Palmira), contribuendo a far sprofondare il Paese nel caos provocando migliaia di vittime, un gran numero di sfollati e milioni di profughi. La cronaca degli ultimi giorni riporta un nuovo inasprimento del conflitto alla cui origine, in questo caso, c’è anche la storica “questione curda” ossia un gruppo etnico che dal primo dopoguerra chiede di essere riconosciuto in un proprio stato, il Kurdistan, una regione contesa tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. L’egoismo, gli interessi di parte, il desiderio di prevaricazione dell’uno sull’altro, del più forte sul più debole non permettono di trovare facili soluzioni sia alla possibilità di cedere la porzione di territori da riconoscere ai curdi sia alle dimissioni di Assad.
Dinnanzi a queste prevaricazioni, a questo modo brutale di anteporre le proprie ambizioni particolari alla possibilità di instaurare legami e porre le basi per un possibile tentativo di reciproco sostegno fra stati, si leva ancora forte, chiara ed amorevole la voce di Papa Francesco che nel recentissimo viaggio in Giappone, il 24 novembre 2019 a Nagasaki nell’Atomic Bomb Hypocenter Park, ha affermato: “Il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo. La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani. (…) Un mondo in pace, libero da armi nucleari, è l’aspirazione di milioni di uomini e donne in ogni luogo. Trasformare questo ideale in realtà richiede la partecipazione di tutti: le persone, le comunità religiose, le società civili, gli Stati che possiedono armi nucleari e quelli che non le possiedono, i settori militari e privati e le organizzazioni internazionali. La nostra risposta alla minaccia delle armi nucleari dev’essere collettiva e concertata, basata sull’ardua ma costante costruzione di una fiducia reciproca che spezzi la dinamica di diffidenza attualmente prevalente. (…) È necessario rompere la dinamica della diffidenza che attualmente prevale e che fa correre il rischio di arrivare allo smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader. (…) Per tutto questo, risulta cruciale creare strumenti che garantiscano la fiducia e lo sviluppo reciproco e poter contare su leader che siano all’altezza delle circostanze. Compito che, a sua volta, ci coinvolge e ci interpella tutti. Nessuno può essere indifferente davanti al dolore di milioni di uomini e donne che ancor oggi continua a colpire le nostre coscienze; nessuno può essere sordo al grido del fratello che chiama dalla sua ferita; nessuno può essere cieco davanti alle rovine di una cultura incapace di dialogare. Vi chiedo di unirci in preghiera ogni giorno per la conversione delle coscienze e per il trionfo di una cultura della vita, della riconciliazione e della fraternità. Una fraternità che sappia riconoscere e garantire le differenze nella ricerca di un destino comune”.