In particolare nell’anno 2009 l’Italia è stata gravemente provata da fenomeni naturali e ambientali di portata disastrosa, che inevitabilmente spingono a porsi dei seri interrogativi sulla reazione della natura a tante improprie intrusioni umane e sulla irrazionalità e superficialità dell’uomo nel sottovalutare aspetti, anche rischiosi, della realtà in cui sceglie di vivere.
Qui di seguito riportiamo i fatti più tragici che hanno profondamente segnato il nostro Paese.
DATI DELLA REALTÀ. ACCADIMENTI RECENTI
TERREMOTI
Tra i fenomeni geologici che in Italia possono arrivare ad avere un forte effetto distruttivo vi è il terremoto (il rischio sismico), che ultimamente ha ferito profondamente non solo il territorio nazionale ma anche quello internazionale.
I terremoti sono vibrazioni della superficie terrestre, provocate da un’improvvisa liberazione di energia in un punto profondo della crosta terrestre; da questo punto si propagano in tutte le direzioni una serie di onde elastiche, dette “onde sismiche”. I grandi terremoti possono causare gravi distruzioni e alte perdite di vite umane, attraverso una serie di agenti distruttivi, il principale dei quali è il movimento sussultorio e ondulatorio del terreno, accompagnato da effetti correlati: frattura della faglia, inondazione (ad esempio, maremoto o rottura di dighe), cedimenti del terreno (frane, smottamenti), incendi o fuoriuscite di materiali pericolosi.
Di questi dolorosi episodi l’Italia è stata recentemente vittima in prima persona il giorno 6 aprile 2009 quando una scossa di Magnitudo 6,3 (VIII-IX Mercalli) ha raso quasi al suolo la città de L’Aquila e la zona limitrofa.
Al momento è il più grave terremoto, per intensità e conseguenze, del XXI secolo in Italia. Il sisma, preceduto da diverse scosse con lievissimi danni nei giorni precedenti, e da alcune anche nel forlivese e in Friuli, è stato registrato in tutta la sua violenza alle ore 3.32 della notte tra domenica 5 e lunedì 6 aprile. La scossa, insieme a quelle che seguirono nei giorni successivi, anche fortissime seppure di grado inferiore, fu nettamente percepita in tutto il centro sud d’Italia, soprattutto a Teramo, Rieti e Pescara ma anche a Terni, Roma, Frosinone, Napoli, Foggia, a settentrione, anche in tutta l’alta valle del Tevere, nelle province di Arezzo, Perugia, Macerata e nell’Appennino Tosco-Emiliano. La città dell’Aquila è stata evacuata dalla quasi totalità della popolazione. Gravissimi i danni agli edifici e al patrimonio storico-artistico dell’Aquila, e comuni limitrofi. Sono crollati, per fare solo un esempio, la sede della Prefettura e un’ala della “Casa dello Studente”, che ha causato la morte di diversi giovani; seriamente lesionati l’Ospedale Regionale, le sedi dell’Università e la Questura. Letteralmente scomparsa la frazione aquilana di Onna, un paesino di soli 300 abitanti dove sono morte 41 persone. Nel complesso sono state accertate 308 vittime, più di mille feriti e circa 65.000 sfollati in tutta la zona.
Nel 2009 si sono susseguiti tanti altri piccoli episodi, come documentato dalla Protezione Civile, che hanno comunque allarmato i centri di rilevamento sismico e fatto porre serie domande sulla effettiva responsabilità dell’uomo riguardo alla poco seria prevenzione dei potenziali danni.
Si pensi che nel sud Italia il 7 settembre 2009, precisamente nella zona di Palermo e Isole Eolie, un sisma di magnitudo 4.4 Richter, intorno alle ore 23.26, con ipocentro in mare ad una settantina di km da Cefalù a profondità di 10-17 km, ha fatto tremare la terra e lesionato una scuola elementare. Altre piccole scosse si sono ripetute durante la notte e nei giorni seguenti. Tanta paura, ripensando alla scossa di sette anni prima ma, per fortuna, nessun ferito.
Un ferito lieve e una donna deceduta dopo essere stata colpita da malore per la paura, invece, nella zona di Barberino del Mugello, dove il 14 settembre 2009 una scossa di 4,2 Richter, alle ore 22.04, con ipocentro a 2 Km da Barberino del Mugello a profondità di 3.5 km, preceduta da un forte boato, ha lesionato 3 edifici (una chiesa e due appartamenti privati). Per la bassa profondità ipocentrale le onde sismiche superficiali sono state percepite con forte intensità anche a vari chilometri di distanza dall’epicentro, in un raggio che comprende le province di Firenze, Pistoia, Prato, Bologna e Modena.
Anche nel centro Italia non sono mancati fenomeni preoccupanti.
Il 20 settembre 2009 con epicentro tra i comuni di Montefano, Appignano e Santa Maria Nuova a profondità stimata di 37,7 km, un sisma di magnitudo 4,6 Richter, alle ore 5.50, è stato avvertito in tutta la regione. Non sono stati rilevati danni a persone o cose, solo molta paura tra la popolazione, che ha passato la notte fuori di casa temendo il peggio e ripensando al triste evento dell’Aquila e a quello del 26 settembre 1997 che colpì Marche ed Umbria. Si è trattato della scossa più forte degli ultimi 10 anni secondo gli esperti in quella zona.
Il 15 dicembre 2009 alle ore 14.11, un sisma, 4.2 Richter, a 9,2 km di profondità, ha colpito la zona tra Deruta, Perugia e Marsciano dove nelle frazioni di Spina e Castiglione della Valle diverse case sono state lesionate: crollati cornicioni, comignoli e calcinacci. Due feriti lievi. Una seconda scossa minore, di 2.8 gradi Richter, è stata avvertita dalla popolazione in un’altra zona, tra Spoleto, Castel Ritaldi e Campello sul Clitunno.
Recentemente, il giorno 12 Gennaio 2010, alle ore 09.25 è avvenuto un sisma di magnitudo 4.0 Richter, con epicentro nella zona tra Macerata e Fermo. Le località più vicine all’epicentro sono Colmurano e Gualdo entrambe in provincia di Macerata. La profondità epicentrale è di 25 km. Nella stessa zona, alle 14.35 si è verificata un’altra scossa di magnitudo 4.1 Richter. Questi terremoti seguono alcuni eventi che si sono verificati tra il 7 Gennaio e il 10 Gennaio 2010. La sismicità è avvenuta a profondità tra i 15 ed i 25 km. Si è creato un forte panico nelle scuole, che ha portato a sospendere le lezioni di ogni ordine e grado.
FRANE ED ALLUVIONI
Oltre al terremoto un altro fenomeno geologico che tocca gravemente il nostro territorio sono le frane, spesso causate da violente alluvioni. Infatti le manifestazioni più tipiche di fenomeni idrogeologici (il rischio idrogeologico) sono costituite dalle frane e dalle alluvioni, seguite da erosioni costiere e da valanghe.
Con il termine frana si indicano tutti i fenomeni di movimento o caduta di materiale roccioso o sciolto, a causa dell’effetto della forza di gravità su di esso.
Le frane possono dare luogo a profonde trasformazioni della superficie terrestre, e a causa della loro alta pericolosità, in alcune aree abitate, devono essere oggetto di attenti studi e monitoraggi.
Per frana o dissesto è da intendersi, quindi, qualsiasi situazione di equilibrio instabile del suolo, del sottosuolo o di entrambi, compresi fenomeni di intensa erosione superficiale, o fenomeni franosi che interessano i pendii in profondità; tali movimenti sono controllati dalla gravità. I fattori o le cause che producono una frana o un movimento di massa sono molteplici e si distinguono in tre tipi:
a) cause predisponenti (ovvero proprie dell’ambiente naturale): natura del terreno, litologia, giacitura, andamento topografico, acclività dei versanti, clima, precipitazioni, variazioni di temperature, idrogeologia ecc;
b) cause preparatrici: disboscamento, piovosità, erosione delle acque, variazione del contenuto d’acqua, azioni antropiche ecc;
c) cause provocatrici: abbondanti piogge, erosione delle acque, terremoti, scavi e tagli ecc.
Se si osservano gli ultimi dati disponibili sul fenomeno frane contenuti nel Rapporto sulle frane in Italia, realizzato dall’ex Apat, l’Agenzia per la protezione dell’Ambiente (ora confluita nell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione dell’ambiente), Regioni e Province Autonome, nell’ambito del Progetto Iffi (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia) si viene a sapere che in 50 anni sono stati censiti quasi 470.000 fenomeni franosi in Italia per un totale di circa 20.000 km, pari al 6,6% dell’intero territorio nazionale. Dal dissesto è colpito quasi il 70% dei comuni: 5.596 su un totale di 8.101.
Le alluvioni sono tra le manifestazioni più tipiche del dissesto idrogeologico e sono causate da un corso d’acqua che, arricchitosi con una portata superiore a quella prevista, rompe le arginature oppure tracima sopra di esse, invadendo la zona circostante ed arrecando danni ad edifici, insediamenti industriali, vie di comunicazione, zone agricole, ecc.
In un rapporto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e dell’Unione delle Province d’Italia del 2003 viene riportato che in Italia le aree a rischio elevato e molto elevato di alluvione sono diverse migliaia e coprono una superficie di 7.774 kmq, pari al 2,6 % della superficie nazionale.
Il territorio italiano è interessato, con frequenza sempre maggiore, da alluvioni che avvengono con precipitazioni che possono anche non avere carattere di eccezionalità. Tra le cause dell’aumento della frequenza dei fenomeni vi sono senza dubbio l’elevata antropizzazione e la diffusa impermeabilizzazione del territorio, che impedendo l’infiltrazione della pioggia nel terreno, aumentano i quantitativi e le velocità dell’acqua che defluisce verso i fiumi, la mancata pulizia degli stessi e la presenza di detriti o di vegetazione che rende meno agevole l’ordinario deflusso dell’acqua.
Spesso accade che una violenta alluvione comporti di conseguenza una disastrosa frana.
Difatti molti quotidiani hanno riportato la notizia della terribile frana nel messinese avvenuta il 1 ottobre 2009: 36 morti, 79 persone ricoverate in ospedale, 35 dispersi e oltre 400 sfollati. Questo è stato il bilancio del disastro causato dal nubifragio che si è abbattuto nella Sicilia nord orientale fornito ufficialmente dalla Prefettura di Messina, dove è stata istituita l’unità di crisi che ha coordinato i soccorsi.
Le frazioni più colpite dal violento nubifragio sono state quelle di Giampilieri, Scaletta, Scaletta Zanclea e Briga, alle pendici dei Peloritani. Addirittura a Giampilieri un costone di roccia è franato su alcune palazzine.
Ma il rischio di frane e alluvioni non riguarda solo questi territori, ma, secondo Legambiente, il pericolo di gravi dissesti idrogeologici coinvolge almeno il 70% dei comuni italiani per via del degrado ambientale e dei corsi d’acqua, dell’abusivismo e del disboscamento selvaggio.
Addirittura dall’intervento di Francesco Russo, presidente dell’Ordine dei Geologi della Campania, è emerso che “i comuni a rischio idrogeologico in Campania sono 210 su 552, di cui 120 a rischio di colate rapide di fango” e che “l’intensificarsi di fenomeni meteorologici estremi è dovuto al cambiamento climatico in atto. Nei prossimi anni la pioggia potrebbe addirittura raddoppiare: se queste zone già allo stato attuale sono a rischio, quando aumenterà la pioggia in quelle regioni particolari potrebbe accadere una catastrofe”.
Inoltre Calabria, Umbria e Valle d’Aosta sono le regioni con la più alta percentuale di comuni classificati a rischio (il 100% del totale), seguite da Marche (99%) e Toscana (98%). La Sicilia è undicesima (70%), con 200 comuni a rischio frana, 23 a rischio alluvione e 49 a rischio frana e alluvione.
Nel mese di febbraio 2010 è tornato l’allarme nella provincia più orientale della Sicilia per le forti piogge che hanno causato numerose frane. Nuove ordinanze di sgombero sono state emesse nella notte a Tusa, dove sono state evacuate almeno 20 famiglie, mentre, a San Fratello, 1500 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.
È di qualche giorno fa, inoltre, la notizia che, sempre in provincia di Messina, nel comune di Caronia, il terreno ha ceduto provocando un enorme riversamento che ha lasciato la zona isolata. Gli abitanti a monte e a valle del luogo sono stati evacuati e la Scuola Media “Lineri”, già gravemente danneggiata, è stata chiusa. Danni anche a case e strade dove cominciano ad essere visibili delle crepe molto profonde.
In tale occasione la Coldiretti ha affermato che “l’84 % dei comuni della provincia di Messina è considerato a rischio per frane e alluvioni anche per effetto della progressiva cementificazione del territorio che ha sottratto terreni fertili all’agricoltura”.
Anche il nord Italia è stato segnato da violente alluvioni: si pensi alla frana di sessantamila metri cubi di acqua e ghiaia, a seguito di un’abbondante pioggia, che si è staccata dal monte Antelao il 18 luglio 2009 ed è scivolata sull’abitato di Cancia nel comune di Borca di Cadore, in provincia di Belluno, uccidendo due persone; oppure all’alluvione e alla conseguente colata di detrito nel comune di Villar Pellice (TO) il 29 maggio 2008, dove a causa delle forti piogge, nell’alveo del Rio Cassarot, tributario del torrente Pellice, si è generata, appunto, una colata detritica torrentizia che ha travolto una casa, ne ha danneggiato altre 3 ed ha ucciso 4 persone.
VALANGHE
Un altro fenomeno che in questi giorni ha interessato le più note montagne italiane è quello della valanga.
La valanga è un fenomeno che si verifica quando una massa di neve o ghiaccio improvvisamente si mette in moto a causa della rottura della condizione di equilibrio presente all’interno del manto nevoso e precipita verso valle. Durante la discesa può coinvolgere altra massa nevosa ed assumere dimensioni sempre maggiori e velocità anche superiori ai 300 km/h. Il distacco della massa di neve può essere provocato da varie cause: naturali, umane (sciatori), l’azione del vento, ecc.
Recentemente la montagna ha fatto parlare di sé in modo tragico. Il 20 febbraio ci sono stati tre morti, fra Trentino Alto Adige e Val d’Aosta. La prima vittima delle valanghe è stata in Trentino, sulla Paganella: la vittima cercava con altre due persone uno snowboard perso sulle piste, quando sono stati travolti da una valanga in un piccolo avvallamento dove c’era neve fresca e ventosa. A vederli, due sciatori dalla seggiovia che hanno chiamato i soccorsi: per uno dei tre, un giovane di Macerata, nulla da fare. In Alto Adige, a Sesto Pusteria, due sciatori, entrambi parà degli alpini, sono stati travolti da una slavina vicino a un rifugio: uno si è tratto in salvo, l’altro è stato estratto vivo dai soccorritori ma è morto poco dopo. Un altro sciatore è stato travolto e ucciso nel pomeriggio dello stesso giorno da una valanga sopra Valtournenche, in Valle d’Aosta.
Contemporaneamente in alta Val Seriana, nel Bergamasco, due alpinisti coinvolti dal distacco di due cumuli di neve, sono stati trovati sani e salvi dai soccorritori. Un’altra slavina, che nel tardo pomeriggio si è staccata vicino a una pista da sci a Selva in Val Gardena, ma non vi sarebbero persone travolte. Il giorno prima in Val di Scalve (Bergamo) un’altra valanga aveva travolto un giovane, che in nottata era stato dichiarato morto.
Il 21 febbraio uno sciatore polacco di 25 anni è morto all’ospedale di Trento, dopo essere stato travolto da una valanga in Alto Adige, nella zona di Sesto Pusteria, tra la Croda Rossa e Passo Monte Croce. E due persone sono rimaste ferite in modo grave per una slavina caduta a Bormio, in Alta Valtellina, e per una valanga sul monte Olano, in Val Gerola (sempre in provincia di Sondrio).
Nella stessa giornata in Valtellina, vicino a Bormio, un’enorme massa di neve scivolata a valle ha travolto, a 2.700 metri di quota, due escursionisti che stavano praticando sci-alpinismo in un’area ritenuta ad alto rischio di caduta slavine. Uno dei due, un giovane di 28 anni, è rimasto illeso, mentre l’altro, un milanese di 72 anni già multato il giorno prima dalla Guardia di finanza mentre sciava fuori pista, è stato estratto dalla neve e ricoverato all’ospedale di Bergamo, in stato ipotermico e di arresto cardiaco. La slavina sarebbe stata causata proprio dal fuoripista effettuato dai due.
A distanza di due ore da quella a Bormio, un’altra valanga ha travolto due turisti francesi, un uomo e una donna, sul monte Olano, in media Valtellina. La donna, 29 anni, è stata ricoverata con traumi molto seri al San Raffaele di Milano, mentre l’uomo è rimasto illeso.
Nelle prime ore del mattino, un’altra valanga era stata registrata nella zona di Foppolo, vicino a Bergamo: una persona è rimasta coinvolta, ma è stata recuperata incolume.
È stato registrato così un alto rischio valanghe in tutto l’arco alpino e sugli Appennini, per l’aumento delle temperature massime e minime e delle precipitazioni, soprattutto in Trentino, dove il grado di rischio è salito da “marcato” a “forte”.
IL CUORE DELLA QUESTIONE
È nell’ordine della natura che il vulcano erutti, che le zone sismiche siano soggette a terremoti e maremoti più o meno dannosi, che nelle zone di montagna possano verificarsi slavine e frane… Ed è nel superficiale salto di questa evidenza naturale che si inserisce la responsabilità dell’uomo, che per scopi ed interessi di vario genere, spesso non condivisibili, si trova magari a costruire case nei pressi di vulcani, oppure a sradicare alberi in zone argillose o vicine a fiumi e colline.
Legambiente certifica che nel 77% dei comuni italiani sono state costruite abitazioni in aree pericolose, e nel 56% fabbricati industriali. E ancora 5.581 soni i comuni a rischio idrogeologico, di cui 1.700 per frane, 1.285 per alluvioni e 2.596 per frane e alluvioni insieme. Piemonte e Sicilia le regioni maggiormente a repentaglio: la prima conta 1.046 comuni in pericolo, la seconda 272 (di cui 91 solo nel Messinese). Il sottosegretario alla Protezione civile, Guido Bertolaso, in occasione delle frane di Messina nell’ottobre 2009, ha drammaticamente sostenuto che “per mettere in sicurezza tutto il nostro Paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro”. Tanti, ma non quanti quelli spesi dai Governi a catastrofi avvenute, senza contare le perdite umane.
Fonti autorevoli (Incuria e abusi, l’Italia che si sbriciola: rischi idrogeologici in 7 Comuni su 10) denunciano come questo allarme sia forte e fondato particolarmente in un Paese come l’Italia, nel quale aleggia una certa tendenza culturale ed apolitica che vede dilagare l’abusivismo. Solo a Roma sono in esame 85 mila domande di condono presentate tra i primi anni ‘90 ed il 2003. Questo scarsissimo rispetto delle leggi trova la corresponsabilità di cittadini ed amministratori comunali insieme: i primi, confidando nelle sanatorie, moltiplicano le costruzioni abusive, le seconde chiudono a volte anche due occhi per poter rimpinguare un po’ le sempre troppo poco piene casse comunali. Non bisogna nemmeno nascondere come in questo lassismo generale si collochi l’azione spregiudicata della malavita e di quanti, esperti nel settore, edificano con noncuranza e senza rispettare le norme, a scapito dei cittadini spesso ignari dei reali rischi.
Sono questi reati gravi, come espresso anche dall’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; però continuano a proliferare nell’indifferenza generale invece di essere repressi. Indifferenza peraltro ingiustificata ed ingiustificabile, poiché a tema c’è il depauperamento di un patrimonio che è collettivo.
Nel messaggio per la celebrazione della XLIII Giornata Mondiale della Pace (1° gennaio 2010), il Santo Padre Benedetto XVI, riferendosi più ampiamente al grave contesto planetario, ha così affermato: “La crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una ‘revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo’, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni.(…) L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come «un mucchio di rifiuti sparsi a caso», mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per «custodirla e coltivarla» (cfr Gen 2,15). Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, «piuttosto tiranneggiata che governata da lui». L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola”.
Già Paolo VI nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, ammoniva l’uomo che “attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”.
Occorre, a questo punto, differenziare ciò che si intende per disastro ambientale e disastro naturale, concetti sostanzialmente distinti ma dai confini labili.
Il disastro ambientale è un fenomeno con una vasta ricaduta sull’ambiente, naturale e non, inteso in senso biologico, catastrofico per la numerosità degli organismi viventi coinvolti, la gravità degli effetti su di essi e la vastità del territorio interessato. Tali eventi sono generalmente provocati dall’azione diretta dell’uomo e dalle sue attività (più raramente sono causati da altre razze animali).
Il disastro ambientale, però, non va confuso con i disastri naturali o calamità naturali, che sono la conseguenza di un pericolo naturale, determinato da particolari fenomeni o ambienti (vulcani, terremoti, inondazioni...). L’accadere di questi fenomeni, normale nell’ordine della natura, si trasforma in quello che viene definito disastro naturale quando provoca perdite materiali e umane, verificandosi in zone vulnerabili.
Tuttavia questi fenomeni naturali sono spesso amplificati dalle attività antropiche, sfumando facilmente il confine tra le due categorie. Ad esempio, un diretto disastro ambientale come la deforestazione di un’area collinare può trasformare un relativamente innocuo nubifragio in una frana devastante.
A tal proposito il Card. Bagnasco nell’ultima prolusione al Consiglio Permanente della CEI spiegava come “gli esperti parlano di una sorta di emergenza permanente che riguarda il nostro Paese dovuta, oltre che a fenomeni violenti che non dipendono dall’uomo, a dissesti e incurie, ma anche ad errori veri e propri, o al non rispetto dei vincoli o a sottovalutazioni dei pericoli, a certa urbanizzazione irrazionale e incontrollata e alla mira del maggior profitto a scapito della sicurezza. C’è una preoccupazione che responsabilmente compete a tutta la popolazione, e coincide con un fondamentale senso civico, proprio perché tutti devono avere a cuore la sicurezza propria, della propria famiglia, della propria comunità, per cui è contraddittorio fare azzardi e consumare abusi per lamentare poi la distrazione o le dimenticanze dei pubblici poteri”.
È allarmante come l’uomo si trovi a sfidare e manipolare la natura sia con azioni apparentemente stupide - come ad esempio costruire una casa nelle prossimità di un vulcano - sia con atti di potere e di indifferenza, facendosi padrone indiscusso della natura ed usando male del creato fino a distruggerlo. L’aggravante è che fin troppo spesso dietro a queste realtà si nascondono affari loschi o speculazioni economiche asservite ad un denaro che viene fatto dio, senza capire che a lungo andare tutti patiranno le conseguenze di tali abusi. Infatti è nell’ordine della natura che il creato “si ribelli” facendoci sentire tutta l’assurdità di voler dominare ed asservire ai miseri scopi umani ciò che non ci appartiene, ma che ci è dato perché noi ne godessimo.
Come ci esorta il Card. Bagnasco, poiché, nonostante l’immenso lavoro svolto dalla nostra Protezione Civile, anche in collaborazione con altri enti, esistono ancora in Italia molti allarmi inascoltati, è urgente procedere alla messa in sicurezza “del territorio che la Provvidenza di Dio ci ha affidato”.
Anche se è sempre più diffuso, l’ambientalismo fine a se stesso, come un attivismo finalizzato alla risoluzione di un problema, è una risposta limitata. Bisogna ripartire dal cuore della questione: è un dato di fatto che la realtà, il creato, pur non essendo stato fatto da noi, è messo a nostra completa disposizione. È un dono. Un dono di Dio. Ancor di più è un segno attraverso il quale Dio entra in rapporto con noi.
Perciò rispettare l’ambiente è una forma di carità a se stessi e agli altri, che ci permette, usando in maniera retta questo dono che è il creato, di vivere meglio, godendo della bellezza, salute, dignità e ordine di cui ciascuno è esigenza.
“Se viene meno il rapporto della creatura umana con il Creatore, la materia è ridotta a possesso egoistico, l’uomo ne diventa ‘l’ultima istanza’ e lo scopo dell’esistenza si riduce ad essere un’affannata corsa a possedere il più possibile. Il creato, materia strutturata in modo intelligente da Dio, è affidato dunque alla responsabilità dell’uomo, il quale è in grado di interpretarlo e di rimodellarlo attivamente, senza considerarsene padrone assoluto. L’uomo è chiamato piuttosto ad esercitare un governo responsabile per custodirlo, metterlo a profitto e coltivarlo, trovando le risorse necessarie per una esistenza dignitosa di tutti” (Benedetto XVI, Udienza Generale del 26 agosto 2009).