Il governo Monti ha presentato al Capo dello Stato nel mese di gennaio un piano di riforma del lavoro a 360 gradi che vorrebbe essere uno strumento utile a ridurre le rigidità del sistema italiano e aumentare la sua produttività senza andare ad intaccare le tutele dei lavoratori conquistate nel tempo.
Si tratta in particolare di un disegno di legge a firma del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elsa Fornero, composto da circa 70 articoli, le cui maggiori novità consistono nel ritorno del reintegro nel posto di lavoro del lavoratore nei licenziamenti economici «insussistenti», nella fissazione a 24 del numero di mensilità indennizzabili in caso di allontanamenti disciplinari, nella riduzione al 30% per i prossimi tre anni delle stabilizzazioni per l’assunzione di nuovi apprendisti, nell’applicazione della stretta sulle partite Iva solo a partire dal prossimo anno, nella limitazione del giro di vite sui co.co.pro ai nuovi contratti.
In questo momento di crisi economica non tutti, specie i sindacati, hanno accolto con fiducia questa ipotesi di riforma, perché è sembrato un attacco diretto alla Legge n. 300 del 1970, cioè al famoso Statuto dei lavoratori, che da sempre rappresenta un traguardo intoccabile di riconoscimento di diritti e doveri per tutti i lavoratori, ottenuto con molti sacrifici.
Ed è per questo che il Governo ha utilizzato la forma del disegno di legge, affidando così all’Aula legislativa e, quindi, al confronto politico, il compito di mediare in via definitiva sui diversi aspetti legati al nuovo modello di mercato del lavoro. Inoltre ha nel tempo riscritto alcuni particolari a seguito delle audizioni, in via informale, dei rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confindustria.
In particolare il 23 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato, con la formula “salvo intese”, il “documento di policy”, il testo base, relativo alla riforma del mercato del lavoro, a fronte delle forti contrarietà emerse in sede politica, sindacale e sociale, rispetto ad alcuni contenuti della riforma. Quindi questo documento dal titolo “Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” è stato trasmesso alle Camere per dare avvio all’iter legislativo il 5 aprile ed è stato quindi incardinato in Commissione Lavoro del Senato lo scorso martedì 10 aprile.
In questi ultimi giorni è così iniziato l’esame del testo con la presentazione delle relazioni da parte dei senatori Maurizio Castro (PdL) e Tiziano Treu (PD), relatori al provvedimento.
L’art. 18: caposaldo dello Statuto dei lavoratori
All’interno di questa importante e complessa riforma fa molto discutere, più di tutto il resto, la modifica del famoso art. 18 (il testo attuale dell'art. 18), che già in precedenza è stato sottoposto a diversi tentativi di riforma, mai andati a buon fine.
Ma di cosa stiamo parlando?
Tale norma si occupa di disciplinare e risolvere la questione del licenziamento illegittimo, vale a dire cosa può chiedere il lavoratore a sua tutela e cosa deve concedere il datore di lavoro in caso di scorretto comportamento riconosciuto dal giudice del lavoro su ricorso dello stesso lavoratore. Insomma afferma che il licenziamento è valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo.
Per capire l’importanza dell’art. 18 occorre specificare che lo stesso fa parte del cosiddetto Statuto dei lavoratori, vale a dire della legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, che è una delle norme principali del diritto del lavoro italiano.
L’esigenza di una regolazione precisa ed equitativa dei meccanismi del mondo del lavoro è cresciuta di importanza nella seconda metà del Novecento quando, dovendosi ripensare la strutturazione dello stato post-fascista, il Parlamento nel rivedere i rapporti sociali dovette tener conto dell’accresciuta rilevanza del mondo del lavoro fra i temi importanti nel nuovo regime di democrazia. Questo perché in un regime democratico non poteva più funzionare una struttura corporativistica introdotta sotto il regime fascista.
Il testo dello Statuto dei lavoratori contiene norme relative a numerose previsioni specifiche, su alcune delle quali si sofferma in modo dettagliato. Si divide in cinque titoli, di cui un titolo dedicato al rispetto della dignità del lavoratore, due titoli dedicati alla libertà ed all’attività sindacali, un titolo sul collocamento ed uno sulle disposizioni transitorie.
Lo Statuto ha sancito tutti i principi che sono alla base di un dignitoso rapporto di lavoro, subordinato e non, si pensi alla libertà di opinione del lavoratore, al divieto di discriminazione per fede, razza, sesso, politica, alla tutela della maternità e paternità nel luogo di lavoro, alla difesa del lavoratore ingiustamente licenziato, alla regolarità di un contratto che riconosca chiaramente i diritti e i doveri, ma non è mancato chi in politica lo ha visto come un “limite” alla libertà degli imprenditori.
Lo Statuto dei Lavoratori si applica alle aziende con almeno 15 dipendenti nell’ambito dello stesso comune, alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
Nel corso di questi quarant’anni si è spesso sentita l’esigenza, sia da destra che da sinistra, di un adeguamento del testo della legge o comunque l’esigenza di una tutela differenziata e approfondita di quelle categorie di lavoratori non rientranti nelle casistiche previste dall’attuale previsione dello Statuto dei lavoratori; ciò nasce anche dal fatto che storicamente l’Italia non è stata sede di aziende con un elevato numero di dipendenti; la maggior parte delle aziende italiane rientrano, infatti, nel novero delle “piccole e medie imprese” alle quali buona parte dello Statuto non si applica.
Questo tentativo di riforma è passato anche per la via dei referendum, spesso senza esito perché non si è raggiunto il quorum elettorale; si pensi a quando nel 2000 si è svolto un referendum per abolire le garanzie previste dall’art. 18 ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti; ed ancora a quando nel 2003 si è svolto un referendum per estendere le garanzie previste dall’art. 18 ai lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti.
Ora il voler rivedere la disciplina del lavoro, specie dell’art. 18, ha di nuovo messo a confronto le due fazioni di pensiero: da un lato, coloro che considerano questo articolo un baluardo intoccabile, nell’ambito del lavoro subordinato, ritenendo che abrogarlo o modificarlo significherebbe indebolire anche le altre forme di tutela dei diritti dei lavoratori; dall’altro, chi invece ritiene che si debba rendere più flessibile il rapporto di lavoro stabile, superando il dualismo che caratterizza un diritto del lavoro, troppo generoso con i dipendenti e troppo avaro con i lavoratori precari.
Le novità principali
Rispetto al passato due sono le novità principali (il testo dell'art.18 a seguito della riforma): da una parte, l’ampliamento dei casi in cui è previsto il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore licenziato (punto sul quale forte è stato lo scontro) e, dall’altra, la diminuzione a 12 e 24 mensilità dell’indennizzo minimo e massimo previsto nei casi in cui invece il giudice nega il rientro sul posto di lavoro.
È evidente come le due disposizioni vadano in direzioni diametralmente opposte: la prima amplia la tutela a vantaggio dei lavoratori, la seconda è invece la contropartita pagata alle aziende, come per dire “un colpo al cerchio, uno alla botte”!
Al centro del dibattito era finito il licenziamento per motivi economici che, nelle intenzioni originarie, a differenza di quello per motivi disciplinari, non contemplava l’ipotesi del reintegro. Oggi, invece, il testo presentato a Napolitano accomuna le due ipotesi (licenziamento disciplinare e licenziamento economico) quantomeno nella parte relativa alla tutela per licenziamento illegittimo. Nel caso in cui accerti la «manifesta insussistenza» del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (economico), il giudice, oltre al risarcimento pari a 12 stipendi, “può” infatti disporre anche il reintegro. Resta salva la facoltà del lavoratore di optare per l’indennizzo economico.
Negli altri casi di annullamento del licenziamento economico per il datore di lavoro resta solo la condanna al pagamento dell’indennità tra 12 e 24 mensilità. E questa è un’altra novità: infatti, la precedente bozza di modifica dell’art. 18, nella parte in cui prevedeva l’indennizzo per il licenziamento annullato, anche quale alternativa al reintegro, lo fissava nella misura variabile tra 15 e 27 mensilità.
Resta invariata, invece, la disciplina del licenziamento discriminatorio. Qui il reintegro resta praticamente d’obbligo, salvo il caso il lavoratore non scelga l’indennizzo (schema di sintesi che spiega la disciplina dell’art. 18 prima e dopo la riforma in atto).
Dunque il Governo intende ridistribuire la tutela reale dell’art. 18 proponendo di lasciare il reintegro per i soli licenziamenti discriminatori, che si estende però a tutte le imprese, anche quelle sotto i 15 dipendenti, attualmente escluse salvo che per i licenziamenti discriminatori.
Sui quelli disciplinari, la proposta del ministro Fornero consiste nel fatto che sia previsto il rinvio al giudice che deciderà il reintegro “nei casi gravi” o l’indennità con massimo 27 mensilità, tenendo conto dell’anzianità. Per i licenziamenti dettati da motivi economici è previsto solo l’indennizzo, che va da un minimo di 15 mensilità a un massimo di 27, facendo riferimento all’ultima retribuzione.
Ovviamente la reintegrazione deve avvenire riammettendo il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento, salva la possibilità di procedere al trasferimento in un secondo momento, se ricorrono apprezzabili esigenze tecnico-organizzative o in caso di soppressione dell’unità produttiva cui era addetto il lavoratore licenziato.
Quindi la riforma sembra voglia allargare questa tutela del legittimo licenziamento alle aziende con meno di 15 dipendenti nei casi più gravi di licenziamento discriminatorio, mentre per quelli di tipo economico o disciplinare rimarrebbe la precedente disciplina, vale a dire che, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere tra la riassunzione del dipendente o il versamento di un risarcimento; la riassunzione, però, si differenzia dalla reintegrazione, in quanto il dipendente riassunto perde l’anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente contratto.
Consensi e critiche alla riforma
Come ci insegna la storia ogni riforma, buona o cattiva che sia, può essere accolta con grandi plausi come invece essere denigrata punto per punto.
Qui di seguito riportiamo un tratto di un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 21 marzo scorso che ben riassume le diverse fazioni.
“… La Ue, invece, sostiene la riforma:«Ha intenzione di dinamizzare il mercato del lavoro, corrisponde al nostro obiettivo di creare un mercato più dinamico e la sua direzione è degna di sostegno», dice il commissario Ue all'Occupazione, Lazlo Andor, precisando come la riforma abbia un' ambizione notevole. Il commissario europeo ha, poi, sottolineato che è stata «un'ottima cosa investire un sacco di tempo nel dialogo con le parti sociali». Un fattore chiave del piano del Governo Monti è, per il commissario, quello di «affrontare la segmentazione del mercato del lavoro, una delle sfide più importanti» (...) Se la Cgil annuncia battaglia, la Cisl plaude all'intesa, definita «un compromesso onorevole». Per il segretario Raffaele Bonanni «su abusi e discriminazioni si rafforza la protezione anche per i lavoratori»di aziende con meno di 15 dipendenti, e «al giudice si dirà che dovrà utilizzare le norme contrattuali, che i sindacati liberamente costruiscono con le imprese». (...) Vede spazi di miglioramento nella trattativa il dg di Confcommercio, Francesco Rivolta: «Dopo un avvio molto difficile della trattativa, dobbiamo registrare che il governo ha raccolto alcune tra le nostre proposte» e questo è «un fatto positivo perché viene riconosciuto il valore del terziario di mercato». «Spiace - prosegue - che la Cgil non abbia voluto cogliere l'importanza di condividere l'impianto della riforma. L'annuncio di scioperi non favorisce certo il dialogo».(...) E si fa sentire anche il segretario nazionale dell'associazione funzionari di polizia, Enzo Letizia. Che segnala un rischio:«In piena recessione è evidente il rischio di una spaccatura sociale del Paese che può alimentare pericolose derive anche di natura eversiva. Con il solo indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente passerebbe un messaggio assai negativo quello che con un pò di denaro si ha la libertà di togliere illegittimamente il futuro alle persone». Pronti alla mobilitazione sono anche i sindacati dei bancari (Fabi): «Gli imprenditori si sono ripresi quello che i lavoratori erano riusciti a conquistare: un principio di civiltà che è stato gettato nella spazzatura in nome dell'Europa e del Libero Mercato». Se il governo non cambia rotta sull'art.18, non esiteranno a dare battaglia".
In conclusione
Il lavoro rappresenta nel nostro Paese, come in tutti quelli democratici, un diritto fondamentale per ogni uomo, tanto che nella Costituzione non solo si definisce l’Italia come una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ma all’art. 4 è previsto che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Ed è proprio questa presa di coscienza che è alla base dello Statuto dei lavoratori, in cui è stata data attuazione ad una disciplina che per la prima volta riconosceva dignità ad ogni lavoratore, concedendo gli strumenti idonei ai datori di lavoro al fine di operare seriamente e legittimamente.
Lo Statuto poi ha dato il via a tutta la contrattazione collettiva nazionale tra i lavoratori e i datori di lavoro unitamente ai rispettivi rappresentanti sindacali, perché tutti potessero conoscere i diritti e i doveri del mestiere che si voleva intraprendere.
Anche la Chiesa non ha mai mancato di far sentire la sua voce in sostegno dell’uomo che lavora; infatti nell' enciclica Caritas in Veritate del papa Benedetto XVI il concetto di dignità del lavoro viene richiamato in diversi punti. Al n. 63 il Papa sottolinea come la parola "decente" applicata al lavoro stia ad indicare "un lavoro che, in ogni società, sia l'espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa». Al n. 32 si sottolinea invece come come "la dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti". E sempre al n. 63, Benedetto XVI sviluppa il tema della dignità del lavoro connettendolo di nuovo alla questione della giustizia con un riferimento esplicito al tema della povertà, affermando che: "I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia".
Per riconoscere ed attribuire dignità ad ogni persona che lavora è necessario salvaguardare da un lato i diritti già acquisiti e riconosciuti e dall’altro ampliare e promuovere una serie di diritti e tutele di cui molti lavoratori oggi sono privi.
Alla luce di queste parole ci auguriamo che i nostri governanti, in questo clima di riforma ancora tutta in itinere, continuino a rispettare innanzitutto la dignità di ogni uomo, sia del datore di lavoro che crea e offre posti di lavoro sia del lavoratore stesso che mette a servizio la sua competenza, dando la possibilità di costruire una civiltà sana e libera, capace di creare beni e servizi a sostegno del bisogno che si incontra ogni giorno.