Clemente Rebora nasce a Milano nel 1855 da una famiglia borghese, fortemente laicista, ma viene comunque battezzato per l’insistenza di un’anziana zia. Attraverso alcuni versi di Curriculum vitae, scritta nell’estate del 1955, a settant’anni, il poeta dice chi e quale sia la sua consistenza sin da poco più che bambino: “Dal virtuoso familiar recinto/adolescente fuor tutto invitava/l’uman freddo dovere/cenere era sul mio braciere,/ammiccando l’enigma del finito/sgranavo gli occhi ad ogni guizzo;/ fuor scapigliato come uno scugnizzo/ dentro gemevo, senza Cristo;/ sola raminga e povera/un’anima vagava”. Un giorno al liceo un docente gli spiega l’etimologia del suo nome: “l’insaziata fantasia/ dall’aggettivo clemens fu colpita/ gioendo dell’arcan del nome mio/ Ens, Mens, Clemens, mistero di Dio”. Il giovane Clemente si stupisce nello scoprire il legame esistente fra il significato del suo nome di battesimo e il mistero della Santissima Trinità. Dopo il liceo, frequenta Medicina per un anno a Pavia, dopo di che passa a Lettere, iscrivendosi all'accademia scientifico - letteraria di Milano, presso la quale si laurea. Terminati gli studi, intraprende il mestiere di insegnante. La scuola è per lui luogo di educazione integrale, in cui formare uomini pronti a cambiare la società. Proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a collaborare con La Voce, la prestigiosa rivista fiorentina fondata da Giuseppe Prezzolini che vanta fra i suoi redattori gli intellettuali e gli artisti più accreditati del tempo: Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Pietro Jahier, Emilio Cecchi. Rebora sta fra questi “grandi” circondato da stima ed affetto, di lui addirittura dice Soffici: “Eccellente impressione, animo saldo, sicuro e fa bene, che meraviglia sono questi giovani di provincia!”. Nel 1913, come quaderno de La Voce, esce la sua prima raccolta di poesie: Frammenti lirici. Il successo è immediato. Nella poesia Curriculm vitae, osservandoli da lontano, Rebora presenta quegli anni così: “Per ogni strada una fallace meta/ posticcio ogni traguardo;/ tutto era nuovo e tutto era cattivo,/errore e verità stavano al gioco;/ mille facce occhieggiavan senza sguardo;/ le braccia tese ad una fraterna intesa/ recise cadevano a terra”. Alla fine del 1913 Rebora incontra e conosce Lidya Natus, un'artista ebrea russa; fra loro nasce un legame d’amore e, fatto alquanto raro quanto scandaloso per l’epoca, i due convivono senza essere sposati. Dopo il 1915, il poeta è coinvolto nell’esperienza tragica della guerra. Investito del grado di ufficiale di fanteria vive interamente il dramma del conflitto, che definisce “tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu”, partecipa ad azioni belliche, vede morire trucidati suoi compagni; poi un giorno un obice scoppia, una scheggia lo colpisce alla tempia. Rebora ne rimane prostrato mentalmente, sta sempre più male. Dopo lunghe degenze in ambulatori ed ospedali arriva al nosocomio psichiatrico di San Lazzaro a Reggio Emilia; uno psichiatra diagnostica che è affetto da “mania dell’eterno”. Nel 1919 la relazione con Lydia Natus cessa. Proprio a lei e per lei l’artista scrive delle liriche bellissime, una di queste, fra le più belle e struggenti, è Dall’immagine tesa; i cui versi finali sono: “ma deve venire,/ verrà, se resisto/ a sbocciare non visto,/ verrà d’improvviso,/ quando meno l’avverto:/ verrà quasi perdono/ di quanto fa morire,/ verrà a farmi certo/ del suo e mio tesoro,/ verrà come ristoro/delle mie e sue pene,/ verrà, forse già viene il suo bisbiglio”. Si è scritto tanto su questa poesia, lui stesso ha detto che l’aveva composta mentre attendeva il ritorno dell’amata. Da lì a pochi anni, la Presenza che lui cerca dietro e dentro la persona di Lydia gli sarà evidente e manifesta. Intanto, dopo l’esperienza della guerra, nel 1922 pubblica I canti anonimi. Successivamente interrompe l’attività poetica e insegna nelle scuole serali tecniche. La crescente inquietudine lo conduce a cercare e percorrere le vie possibili attraverso cui pervenire alla corrispondenza per cui il cuore è fatto e di cui è profonda nostalgia. Così si avvicina anche alle filosofia yoga e buddista, tiene conferenze, corsi, dirige collane editoriali rivolte ad un vasto pubblico. In questo contesto, una sera d’autunno del 1928 viene invitato a tenere un dibattito al Lyceum di Milano sulla vicenda dei Martiri Scillitani. Durante l’incontro, improvvisamente Rebora si ferma, non è riesce più a proseguire per cui interrompe la conferenza. Quell’istante Rebora lo fotografa così: “La Parola zittì chiacchiere mie/ La Provvidenza sue vie dispose:/ mi fece attento a Pietro e alla sua Chiesa;/ dei martiri la fede venne accesa”. L’anno dopo riceve la Prima Comunione e la Cresima dal Card. Schuster. Ha quarantaquattro anni. Uno dei gesti che compie dopo l’incontro con Gesù è consegnare tutti i suoi scritti ad un rigattiere che passava sotto la sua abitazione. A don Ezio Viola, un suo confratello che lo assiste durante la malattia, che gli chiede il perché di quell’azione, Rebora risponde: “Voi non sapete caro fratello che significa aver incontrato ilCristo”. Negli anni successivi Clemente si avvicina al carisma dell’ordine fondato dal Beato don Antonio Rosmini (1797-1855), frequenta dapprima il Collegio rosminiano a Stresa poi, nel 1931, va a vivere il noviziato a Domodossola. Dopo cinque anni viene ordinato sacerdote, ha già compiuto cinquantuno anni. L’ingresso nell’ordine rosminiano Rebora così lo racconta, nei versi conclusivi di Curriculm vitae: “E fui dal ciel fidato a quel sapiente/ che sommo genio s'annientò nel Cristo/ onde Sua virtù tutto innovasse./ Dalla perfetta Regola ordinato,/ l'ossa slogate trovaron lor posto:/ scoprì l'intelligenza il primo dono:/ come luce per l'occhio operò il Verbo,/ quasi aria al respiro il Suo perdono”. Gli anni del sacerdozio - diciotto - li trascorre dando seguito al voto ulteriore fatto dopo l’ordinazione. “Mio Signore e mio Dio, faccio voto di chiederti in ogni tempo la grazia di patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’opera del tuo amore. Così sia”. A questo poi aggiunge con l’approvazione del Superiore: “Ogni atomo di me stesso,e ogni attimo che mi è concesso, sia amore del tuo cuore,riconoscenza e lode del tuo nome, tua vittoria e in tua gloria, o Gesù amore, mio Signore e mio Dio”. Rebora vive la sua vocazione nel silenzio, nella meditazione e nella carità in mezzo a poveri, malati, prostitute. A tutti è nota la sua affabilità. L’apice della sua vicenda umana, poetica e sacerdotale si ha nell’ottobre 1955, quando, in seguito ad un’ulteriore paralisi, è costretto a rimanere a letto per venticinque mesi. Lì in quella stringente situazione Rebora soffre, prega, impreca, compone e detta liriche, dato che non può più scrivere, riceve persone qualsiasi ed amici, confessa sacerdoti; leva lamenti e preghiere; ride con i confratelli della sua condizione; medita nel silenzio ed offre tutto a Gesù; sempre con il rosario fra le mani e il Crocifisso. Chiunque va a trovarlo esce commosso; valga per tutti la testimonianza del suo vecchio amico Giuseppe Prezzolini, che lo descrive come “un bellissimo giovane dagli occhi vellutati”. Fra le poesie nate, ma prim’ancora portate in grembo e partorite, vi è la lirica Il pioppo che Rebora detta al confratello Ezio Viola: “Vibra nel vento con tutte le sue foglie/ il pioppo severo;/ (il pioppo n.d.r.) spasima l'aria in tutte le sue doglie/ nell'ansia del pensiero:/ dal tronco in rami per fronde si esprime/ tutte al ciel tese con raccolte cime:/ fermo rimane il tronco del mistero,/ e il tronco s'inabissa ov'è più vero”. Rebora si identifica con il pioppo, l’albero agitato dal vento è austero e frattanto si esprime attraverso tutte le sue foglie, tese verso il cielo. Il tronco rimane fermo, fermo nel Mistero e intanto si inabissa nel terreno. Quest’immagine del terreno potrebbe essere lui stesso, tutta la sua vita, la vita di un uomo che non è stato altro che un povero di spirito, da bambino, da giovane, da adulto, da anziano; sempre e solo ininterrottamente un povero di spirito, un uomo vissuto nella consapevolezza di non avere nient’altro che quella domanda, quell’esigenza, quell’attesa infinita del cuore (che secondo qualcuno ha le sembianze di un male psicologicamente indefinibile). Questo è stato sempre e solo il terreno che gli ha permesso di attendere, di ricevere, di accogliere e di aspettare l’amato Gesù e una volta incontratolo, al pari della sposa del Cantico dei Cantici, non si è più, mai più distaccato da lui, ma lo ha amato, solo amato, in ogni dove ed in ogni quando.