di Barbara Braconi
Nelle ultime settimane mi sono spessissimo imbattuta in articoli che parlavano del libro che ha vinto il Premo Strega il 7 luglio scorso. Sono stati soprattutto i commenti banali e negativi sui social a spingermi a comprarlo per leggerlo direttamente. Sapevo che il contenuto mi avrebbe trovato coinvolta, perché l’autrice ed io abbiamo in comune l’esserci ritrovate un disabile in famiglia senza averlo scelto. Effettivamente mi sono rivista in molte sue condivisioni e considerazioni. Prima fra tutte quella che lei chiama la “Grande Fuga” di parenti e conoscenti che, prima o dopo, spariscono non riuscendo a reggere l’urto. E anche quando restano in realtà non riescono fino in fondo a curare la solitudine in cui ci si sente quando si porta a casa dall’ospedale un fratellino down, come è capitato a me, o una figlia con una gravissima malformazione cerebrale, come è accaduto a lei. Un altro aspetto comune è il fatto che la casa si trasformi in una palestra riabilitativa e le attività quotidiane in prolungamenti della logopedia, della psicomotricità, della fisioterapia. “Presto la casa è diventata una succursale di un ambiente per la stimolazione sensoriale” – scrive lei. Tutto viene adattato a loro e in qualche modo anche noi ci assimiliamo a questa novità e non siamo più Ada, ma la mamma di Daria come io non ero più Barbara, ma la sorella di Juri. Ho trovato tanto vere le sue descrizioni.
Ad avermi profondamente ferito è stato il suo grido. Innanzitutto per il senso di colpa di aver permesso che Daria nascesse e per il dubbio di aver potuto in qualche modo aver causato quel danno cerebrale in una folle corsa sul motorino, cercando di prendere tutte le buche per procurare un aborto spontaneo di una gravidanza che aveva inizialmente fatto scappare il papà (non perché la bimba fosse disabile - nessuno lo sapeva ancora - ma semplicemente perché essendoci metteva in crisi e chiedeva spazio). “Tu non mi hai mai parlato ma a me sembra di sentirle le tue parole: ‹‹Mamma, perché mi hai fatto questo?››” – scrive Ada in una delle prime pagine.
Un indizio di risposta all’acuto grido di questa donna sono stati tutti i bambini di cui riporta nel libro le parole, come dei flash che a tratti davano luce alle foto della sua vita con Daria e con suo marito Alfredo, sposato poi un paio d’anni prima di morire. Sono i compagni di scuola di Daria o bambini incontrati per caso che hanno evidentemente dato uno sguardo diverso su quella bimba che non ha mai visto, non ha mai parlato, non ha mai camminato e che oggi sta per compiere diciotto anni, a dispetto delle basse aspettative di vita che i pronostici medici le avevano dato. “Ciao Daria, sono Matteo, sono venuto a portarti delle margherite che, nel linguaggio dei fiori, simboleggiano il sorriso e mi fanno pensare a te” (8 marzo 2022). “Per me sei la luce nei momenti di buio, sei la luna nella notte, sei la mia stella polare. Al di là di tutto e di tutti ci siamo io e te. To be continued” (Cecilia – 27 novembre 2019). “La classe quando c’è Daria è più felice e più sorridente. Quando ci sei tu pensiamo meglio e con più fantasia e bravura. Tu apri la nostra immaginazione” (Orlando – 29 novembre 2016). “Al mare, dialogo tra il tuo babbo e Viola, cinque anni. Viola: ‹‹Non vede, vero?››. Babbo: ‹‹No››. Viola: ‹‹Ma parla?››. Babbo: ‹‹No››. Viola: ‹‹Cammina?››. Babbo: ‹‹No››. Viola: ‹‹Ma allora è magica!››” (26 aprile 2013). Sono solo alcune delle parole dei bambini che Ada ha negli anni ricevuto e raccolto e che ha voluto riportare nel suo libro, scritto nella forma di un dialogo con la figlia. Si capisce che per lei e Alfredo sono state parole belle, che hanno illuminato lo sguardo e scaldato il cuore. Si comprende che sono le sole che hanno trapassato lo scudo e rotto la solitudine. Ancora una volta lo sguardo dei bambini porta sulla realtà una semplicità e una verità che a noi adulti sembra impossibile, ma che desideriamo. Loro non hanno i nostri pregiudizi, i nostri preconcetti, le nostre ansie, le nostre paure. Qualcuno potrebbe obiettare che non hanno la nostra consapevolezza. È vero. Ma è vero anche che noi non abbiamo la purezza di guardare una figlia come Daria come un dono, come un prodigio e tendiamo a vedere solo i problemi, le difficoltà. I bambini invece sanno cogliere che una compagna così porta luce, fa sorridere, aiuta a pensare meglio. E non è la stessa cosa che ci sia o meno.
Il cammino di Ada si è compiuto recentemente, il 1 aprile scorso. Ha fatto appena in tempo a sapere che era tra i dodici finalisti del Premio Strega. È morta a causa di un tumore che negli ultimi anni aveva cambiato e anche maturato il rapporto con Daria. Noi familiari finiamo sempre col sentirci indispensabili e pensiamo che nessuno potrà mai amare, capire e prendersi cura di Daria, di Juri e di tutti i Daria e gli Juri del mondo come noi. E invece poi la vita prima o dopo ci fa vedere che non è così, senza nulla togliere agli enormi sacrifici e all’immane amore che Ada ha vissuto per Daria e all’importanza che lei ha avuto e continua ad avere per la figlia con cui si era incorporata – come dice lei in uno degli ultimi capitoli e come raffigura l’immagine di copertina realizzata da Alfredo – e da cui si è dovuta staccare.
Qualcuno ha avuto la cattiveria di scrivere che questo libro ha ricevuto il Premio Strega per pietismo o per retorica. Io non ho le competenze per dire se dal punto di vista letterario altri lo meritassero di più. So però che è certamente un bel libro e molto ben scritto. Sarà stata una grande soddisfazione per il marito Alfredo aver ritirato questo prestigioso premio per la moglie. Al tempo stessola condizione ci fa sentire tutta l’insufficienza di un riconoscimento importante, perché Ada non è qui e Daria neppure può capire. Cosa te ne fai di un premio?! Credo che molte critiche vengano dal fatto che un libro così scomoda e non permette di stare comodamente seduti in poltrone a perdere tempo in inutili chiacchiere, seppur culturalmente elevate.
Ho appuntato tanto altro sulle pagine del libro mentre lo leggevo. Mi soffermo ora solo su un altro aspetto. Certamente su alcune posizioni io e Ada non ci saremmo trovate in accordo, eppure posso dire che siamo in dialogo e la sento profondamente vicina. Lei difendeva la possibilità dell’aborto, perché ogni donna fosse libera di scegliere. Nel 2008 scrisse una lettera ad Augias, pubblicata su Repubblica, che suscitò un vivace dibattito dal quale si ritrasse subito. Lei aveva scelto l’aborto per una gravidanza precedentemente a quella di Daria e dice che lo avrebbe praticato anche per lei se ci fosse stata una diagnosi prenatale della sua malformazione. I fatti però sono andati diversamente. Un medico non ha saputo leggere bene l’ecografia e, probabilmente ingannato dalla bellezza dei tratti del volto di Daria, non si è accorto dell’anomalia encefalica che presentava e che spessissimo si associa ad una deformità del viso, ma non in questo caso. Ideologicamente Ada lottava per la libertà di scelta soffrendo il dolore e il dramma dell’aborto. Resta un fatto. Lei, ballerina di danza classica di professione, che ha sempre lavorato nel mondo artistico, di fronte a Daria scrive: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te”. Ideologicamente pensiamo delle cose che poi però il rapporto con la realtà ci stravolge. Diciamo tutti che non vorremmo un figlio disabile ma, quando ci capita di averlo, lo amiamo immensamente. È una contraddizione che merita di essere approfondita.
È grande l’intuizione di Ada che la nascita di Daria e il tumore abbiano in realtà semplicemente scoperto una ferita che in lei c’era già prima, a prescindere. In un passaggio scrive: “La tua nascita strappava qualcosa che era già stato strappato. Come una ferita suturata su cui il chirurgo torna a incidere con un bisturi affilato. E la riapre… Quando mi sono ammalata, non mi sono stupita più di tanto. Quella ferita, quella lesione sulla schiena, quel nodulo al seno erano lì da tanto tempo. Questo tumore sono io, è la mia identità. In esso mi riconosco e, finalmente, vivo”. Ada aveva intuito quella ferita originale che tutti abbiamo e che i fatti della vita vengono semplicemente a scoperchiare, a ravvivare, ma senza esserne completamente la causa. Quanto mi addolora che lei non abbia trovato la risposta piena e vera al suo grido, a questa ferita! Suggerisco la lettura di questo bellissimo libro soprattutto per il percorso umano che Ada D’Amo fa attraverso la sua storia e per come fa sentire quella ferita, quel grido che ci accomuna tutti e che non dipende né dal tumore né dalla disabilità ma dalla nostra umanità. Condizioni come quelle che Ada ha vissuto favoriscono che meno facilmente si possa silenziare o anestetizzare il nostro cuore inquieto.
C’è un’immagine molto dolce nel libro con cui vorrei concludere. Il presepe davanti a cui Ada sostava da bambina quando i genitori facevano tardi al lavoro e non andavano a prenderla puntuali all’uscita della lezione di danza presso la scuola delle suore. “Mi entusiasmava l’espressione sorridente di Gesù… Quanto avrei voluto tenerlo tra le braccia, pur sapendo che era vietatissimo toccarlo. Eppure, in quei momenti, mi sentivo fortunata perché, sola in quell’atrio deserto e semibuio, avevo il privilegio esclusivo di poterlo guardare per tutto il tempo che volevo, e di sfiorarlo anche, con una timorosa carezza”. Avessi potuto sapere, Ada, che tutto quello che hai fatto alla tua Daria è come se lo avessi fatto a Lui. Ora, possa tu guardarlo per sempre ed essere da Lui tenuta tra le braccia.
E il Premio Strega? Sono davvero felice che sia stato dato a te anche se credo che ora a te non importi più e che ti faccia semplicemente contenta che sia una terrestre carezza per il tuo Alfredo e la tua Daria. Che tenerezza fa chi per la delusione o l’amarezza perde ancora tempo a commentare che lo hai vinto per pietismo. Chi digrigna i denti per l’osso sfuggito dovrebbe ripensare che il grande Pavese si suicidò pochi mesi dopo aver ricevuto lo stesso prestigioso riconoscimento e qualche giorno dopo aver ritirato a Roma il Premio Strega scrisse: “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla”. Niente basta al cuore, se non Chi tu Ada hai forse intuito di fronte a quel presepe di quand’eri bambina e nel mistero di quella figlia che ti è stata data. Riposa in pace, amica mia.